Per l’Afghanistan, per l’umanità

Particolare della Moschea Haji Piyada di Balkh (Afghanistan)

Qualche giorno fa una persona affettuosamente mi ha dato della #talebana perchè indossavo un hijab più lungo del solito. Garantisco che non c’era alcuna intenzione di offendere, era solo uno scherzo che però non mi ha fatto ridere affatto. Ho compreso con amrezza che quello era il risultato naturale di anni di oggettivazione del corpo femminile per raccontare l’Afghanistan. Ho avuto modo di spiegare a questa persona, che con umiltà e apertura ha compreso quello che sento in queste ore. Io posso infatti solo sentire, non analizzare, non spiegare, non informare, perchè di #Afghanistan non mi sono mai occupata professionalmente. Per questo ci sono persone competenti come Emanuele Giordana e Giuliano Battiston. Quello che sento è il peso dell’ #Islam e il peso di essere #donna con una chiara visione del #patriarcato che schiaccia e opprime, e il peso di essere #europea e #libera e il peso di portare il #velo a tutti i costi…insomma il peso dell’#esistenza umana.

Con questo peso prego affinchè sia donata pazienza e forza a uomini, donne, bambini, anziani e giovani che da decenni vivono nel terrore, nella sofferenza, e nella distruzione che sembra non avrà fine in questa dimensione terrena.

Con questo peso prego affinchè le persone in diaspora possano trovare ogni tanto sollievo dalla pena di essere lontani dai loro cari, impotenti e sconfitti, spesso in condizioni altrettanto difficili. Con questo peso prego affinchè il lavoro delle persone che portano alla luce la Bellezza e la Ricchezza dell’Islam, come via spirituale che conduce alla Serenità del cuore dentro e fuori di noi possa continuare senza sosta.

Nel corso dei secoli tanti testi sono stati prodotti a partire dal Sacro Corano e dalle raccolte di tradizioni riguardo al Profeta Muhammad, tante interpretazioni e speculazioni. A noi la responsabilità di selezionare quelle che producono Misericordia incessante e Pace perpetua in noi e in relazioni ad altri. A noi la responsabilità di rifiutare quelli che sono facilmente manipolabili per giustificare oppressione, violenza e ingiustizia. In Afganistan laddove oggi si consuma una nuova fase di una guerra sottile e ingiusta causata da sete di potere, desiderio smodato di profitto, a Balkh, nel 1207 nasceva il sommo poeta Rumi, che nella sua più grande opera scriveva

“Perchè le devozioni producano frutti, è necessario il sapore spirituale; è necessario il nocciolo, affinchè la drupa dia vita ad un albero. Una drupa senza nocciolo può diventare un arbusto? La forma priva di un’anima è soltanto un fantasma.”

Da credente e studiosa dell’Islam posso solo pregare e continuare a studiare e trasmettere conoscenza. Che ognuno possa trovare un modo di partecipare a questa immensa tragedia con i propri mezzi e le proprie competenze, nel rispetto dell’umano che lentamente muore.

Abbigliamento e Islam: in cerca di equilibrio tra spiritualità e moda

Riflessioni di Safiyya Surtee, traduzione e adattamento dall’inglese all’italiano di Rosanna Maryam Sirignano

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L’abbigliamento è un aspetto indispensabile dell’esistenza umana: abbiamo bisogno di abbigliarci per motivi meramente pratici e utilitaristici, per proteggerci dagli agenti atmosferici, al contempo l’abbigliamento ha tante altre funzioni nelle nostre vite, in primis come segno di dignità e abbellimento. Il Corano afferma:

“Figli di Adamo, vi abbiamo donato delle vesti per coprire le vostre parti intime e come ornamento, però la miglior veste è la taqwa (pietà, consapevolezza della presenza divina). Ecco un segno di Dio affinché essi ricordino” (Corano 7:26)*

Da questo versetto impariamo che i migliori capi di abbigliamento sono quelli che instillano taqwa nei nostri cuori, che, cioè, ci ricordano di Allah e ci conducono alla consapevolezza della Sua presenza nel nostro profondo. L’atto di vestirsi ha un importante scopo spirituale, che va oltre il principio di necessità e il mero adornamento. Vestirsi come atto di consapevolezza spirituale è un concetto stupendo: in questa ottica, una semplice azione diventa uno dei segni di Allah attraverso il quale possiamo ricordarLo. Avete notato che gli abiti che riserviamo alle preghiere, al dhikr**** o che indossiamo per entrare in una moschea, anche se fosse una semplice sciarpa o un mantello, sono intrisi di un senso di spiritualità, perché li adoperiamo con profonda consapevolezza della presenza di Allah? Quando li indossiamo, entriamo in una diversa dimensione, con determinazione e particolare cura. Nella tradizione spirituale islamica, consegnare un pezzo di stoffa, come una sciarpa, è un gesto che si fa per connettere lo studente al maestro e simboleggia il legame di fiducia e amore. Alcuni dei Compagni del Profeta Muhammad ***  gli chiesero un pezzo dei suoi abiti a cui diedero un enorme valore; uno di loro addirittura usò un manto ricamato del Profeta come suo sudario (Bukhari). L’abbigliamento, in una prospettiva islamica, è anche parte integrante dell’adab, l’eccellenza nella condotta, come si evince dai principi etici contenuti nel Corano in cui Allah ci dice:

“Figli di Adamo, adornatevi quando vi recate in un luogo di preghiera: mangiate e bevete. Non siate eccessivi, poiché Allah non ama gli eccessi” (Sura 7:31)

Questo versetto suggerisce al credente di adoperare un abbigliamento adeguato per le preghiere: questa è una delle azioni che fa parte dell’adab di accostarsi ad Allah. Questo passo ci ricorda anche di non scadere in eccessi, perché l’abbigliamento potrebbe diventare anche simbolo di orgoglio e arroganza. Ognuno di noi ha il dovere di esaminare le proprie intenzioni e la sincerità in qualsiasi azione, inclusa la scelta dell’abbigliamento. La modestia è una delle caratteristiche peculiari dell’Islam, e dovrebbe essere il nostro principio guida.

Attraverso l’abbigliamento esprimiamo la nostra individualità, la nostra identità culturale e a volte la nostra appartenenza politica (ad esempio in alcuni paesi a maggioranza islamica, il modo in cui le donne avvolgono il copricapo indica la loro inclinazione politica). Il colore e la creatività sono allo stesso modo parte del dress code islamico all’insegna della modestia e della semplicità: la sfida consiste nel trovare un equilibrio. Il messaggio del tawhid** ci permette di accogliere la diversità senza forzarla ad uniformarsi, poiché siamo tutte creature uniche di Allah. Per questa ragione, il tobe sudanese, il kanga della Tanzania, i buba e gele nigeriani, la jalabbiyya nordafricana, il sari e salwar kameez indiano o il baju kurung malesiano possono essere tutti considerati “islamici”, perché sono tutti manifestazioni di modestia e bellezza.

Dalla Sunnah, impariamo che il Profeta, ogni volta che indossava un nuovo capo di abbigliamento lo menzionava con gioia e diceva: “Oh Allah! Per te è la lode, mi hai vestito, Ti chiedo per il suo bene e per il bene per cui è stato fatto, cerco rifugio in Te dal suo male e dal male per cui è stato fatto” (Tirmidhi). Il Profeta insegnò anche ai suoi seguaci di iniziare a vestirsi dal lato della mano destra (Abu Dawud). Incoraggiò a vestirsi di bianco, dicendo che il bianco fosse la miglior scelta di colore per gli abiti (Nasa’i) e amava usare lo stesso abito per molto tempo prima che diventasse logoro (Bukhari).

Le donne vicine al Profeta in quanto ad abbigliamento erano per lo più preoccupate della purezza degli abiti della preghiera, e questa era la principale questione che riguardava l’ abbigliamento. Esse indossavano abiti di vari colori. Anas ibn Malik disse di aver visto Umm Khultum, la figlia del Profeta, indossare un indumento di seta rossa (Bukhari), una donna una volta si recò da Aisha per un reclamo e in questo racconto è menzionato il fatto che indossasse un indumento verde (Bukhari). In un altro racconto si narra che una giovane donna si recò dal Profeta che indossava una camicia gialla che gli piaceva molto e che la indossò per molto tempo come testimoniato dalla ragazza (Bukhari). Si narra inoltre che il Profeta vestì sua figlia Fatima con un abito di velluto rosso (Nasa’i) e che Aisha indossava spesso un manto di seta (Muwatta) che suo nipote Abdullah ibn Zubayr le aveva donato. In un’altra tradizione, si dice che il Profeta proibì ad una donna nello stato di ihram, stato di purità rituale dei pellegrini, di indossare guanti, veli per il viso e vestiti colorati con lo zafferano; e permise a tutti, quando lo stato di purità si era compiuto di indossare quello che desideravano, abiti colorati di giallo, seta, gioielli, pantaloni, camice e scarpe (Abu Dawud).

Le donne al tempo del Profeta indossavano cinture e fasce dalla famosa storia di Asma bint Abu Bakr leggiamo di come usò la cintura per legare la sacca del cibo del Profeta e suo padre Abu Bakr in occasione della migrazione a Medina (per questo le fu dato il nome di “dhat al nitawayn” “la donna delle due cinture). Le donne avrebbero indossato gioielli anche in occasione di  incontri. È narrato, ad esempio, che dopo il sermone di una preghiera dell’Eid, festa,  il Profeta andò dalle donne con Bilal che distese un pezzo di stoffa chiedendo donazioni e che loro cominciarono a riempirlo con anelli, orecchini e altri gioielli. (Bukhari).

Come donne del mondo moderno abbiamo bisogno di imparare dalla semplicità delle donne che circondavano il Messaggero di Allah, in modo da non essere preda delle tendenze materialistiche e consumistiche del mondo della moda, in cui i corpi delle donne sono manipolati e ridotti a oggetto. Dovremmo resistere agli irrealistici ideali rappresentati dall’industria della bellezza attraverso un modo di vestire al servizio della spiritualità e della taqwa. Dovremmo anche resistere, come donne musulmane, all’essere ridotte al concetto di hijab, velo islamico, che tende ad essere l’unico punto focale dei discorsi sulle donne e l’Islam. La nostra spiritualità e scopo della vita si estende molto al di là e al di sopra di quello che indossiamo. Anche se seguiamo la moda occidentale moderna, non dovremmo abbandonare i nostri abiti culturali e tradizionali o essere titubanti a sperimentare il modo di vestire di altre culture. L’abbigliamento è anche uno dei doni e delle benedizioni del paradiso, jannah, quindi vestire in modo modesto qui ed ora in questo mondo, rendendo Allah visibile attraverso i nostri abiti, ci ricorda della vita eterna che verrà, e Allah promette al popolo del Paradiso:

“portano abiti verdi di seta fine e di broccato, sono ornati di bracciali d’argento, il loro Signore li disseterà con una bevanda purissima.” (Corano 76:21, traduzione di Ida Zilio Grandi)

Questo straordinario passaggio dovrebbe essere un promemoria per impegnarci ad indossare questi abiti del Paradiso, piuttosto che rivolgere le nostre preoccupazioni solo all’abbigliamento in questo mondo.

*La traduzione del Corano in italiano è di Rosanna Maryam Sirignano laddove non esplicitato.

** Il tawhid è il principio cardine alla base del concetto dell’unità e unicità di Dio (Allah)

*** Nel testo originale l’autrice riporta quella che in italiano è la sigla PBSL, Pace e benedizione su di lui, l’eulogia che i musulmani menzionano ogni volta che nominano il Profeta Muhammad. Lo stesso vale per altre personalità della storia islamica al cui nome sono seguite  formule di lode di altro tipo. Nella traduzione italiana si è scelto di non riportarle in forma scritta per una più agevole lettura anche da parte di persone non musulmane.

**** Il dhikr, letteralemte “ricordo”, è un atto devozionale islamico che consiste nella menzione ripetuta di una formula di lode a Dio o di uno dei suoi 99 nomi più belli.

 

Safiyya Surtee è una ricercatrice, scrittrice e blogger. Si occupa di Islam, femminismo, politica e spiritualità. Molto attiva per la sua comunità, ad esempio è membro del comitato del Masjid al-Islam, una moschea gender inclusive e non settaria a Johannesburg.

 

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E così mi liberai dal velo… (seconda parte)

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/02/21/e-cosi-mi-liberai-dal-velo-prima-parte/

E così mi guardai allo specchio e finalmente quello che vidi fu esattamente il mio riflesso: stesi delicatamente una crema colorata sul viso, accarezzandomi come avrei desiderato facessero gli uomini della mia terra, che troppo spesso dimenticavano che ero pur sempre una Rosa. Contornai i miei grandi occhi che spesso avevano trattenuto un fiume di lacrime dense di fronte all’ingiustizia, con una riga blu notte. Impreziosii le mie ciglia di un liquido nero, fino a farle diventare così lunghe da toccare il cielo, quello che avevo guardato tante volte nella speranza di andare via lontano. Salutai mio nonno, e in cuor mio sapevo che sarebbe stata l’ultima volta; con  un misto di gioia, dolore, rabbia ed eccitazione, mi apprestavo a mostrarmi con tutto il mio splendore quel giorno. Per una volta avrei indossato gli abiti che la mia famiglia mi aveva cucito addosso, avrei recitato la parte che il mio pubblico si aspettava, tutto ad una condizione: che il mio velo restasse saldo sulla mia testa. Il mio velo che quel giorno diceva: “ti amo tanto terra mia, famiglia mia, ma non sono esattamente come te e non lo sarò mai”. Così mi apprestavo dopo tanto tempo ad accogliere tra le mie braccia tutti gli uomini presenti in sala, a cimentarmi in un elegante danza con alcuni di loro. Da quel giorno non mi sarei più guardata allo specchio con gli occhi degli altri. Avevo riscoperto la mia Bellezza ed ero pronta a lasciarla libera. Da quel momento il velo, che ostinatamente ogni giorno avvolgevo attorno al mio viso, avrebbe significato una sola ed unica cosa: Bellezza. E parte della mia Bellezza la devo all’Islam, che mi ha aperto la strada per sanare le mie ferite, per riscoprire la mia spiritualità perduta, per riconnettermi all’universo. Quella Bellezza che ho scoperto in Siria, attraverso luoghi, persone, odori; guidata dal vento che attraversava i miei capelli nero corvino, che ho deciso di custodire in veli dai mille colori.

E così mi liberai dal velo… (prima parte)

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Heidelberg, maggio 2014. Era ormai trascorso quasi un anno da quando, per inseguire la mia passione, nella speranza di trovare condizioni migliori e di costruire qualcosa di importante, solido e duraturo, avevo lasciato il mio amato Sud. In Germania era piuttosto semplice circondarsi di musulmani, che soprattutto a Mannheim, dove vivevo, erano ovunque. Frequentavo un paio di moschee, dove avevo la possibilità di parlare l’ arabo e di migliorare la pratica religiosa. Qui il mio velo passava piuttosto inosservato e non avevo quasi mai la necessità di spiegare agli uomini che non dovevano stringermi la mano. Mantenevo una certa distanza anche con il mio capo, che un giorno, con mia grande sorpresa, mi consigliò di “smetterla di recitare la parte”. Non capii bene a cosa alludeva, fu lei a spiegarmelo, il mio raggio di sole nelle grigie giornate di Heidelberg…

Palermo, giugno 2015. Lascio che sia lei a raccontare: “Rosanna è stata la prima ragazza italiana che ho conosciuto ad Heidelberg, poco più di un anno fa. Ci siamo ritrovate in una mailing list comune dell’Università e vedendo il suo nome italiano le ho scritto una mail per invitarla per un caffè. Quando ci siamo incontrate non nascondo lo stupore che ho provato nel trovarmi davanti ad una ragazza che, con il suo marcato accento campano e uno splendido sorriso, portava il velo, il suo hijab, come ho imparato poi. Quel giorno il caffè, si è trasformato in una chiacchierata di quasi 4 ore. Siamo diventate amiche. Da Rosanna ho imparato e sto imparando tanto. Rosanna, cresciuta in una famiglia cristiana, ha scelto di convertirsi. Ha scelto di conoscere e di conoscersi in profondità e seguire quello che il cuore le suggeriva. La sua è stata una scelta coraggiosa che ha portato avanti con gioia e umiltà. E amore. Da Rosanna ho imparato e sto imparando ad accogliere l’Altro… e l’Altro si può accogliere solo se si accetta di mettere per una attimo da parte le proprie “certezze”. Se si impara ad ascoltare, conoscere e rispettare con il cuore e senza quei pregiudizi che tutti fingiamo (o crediamo) di non avere.”

Lei vedeva in me quello che io avevo dimenticato, sepolto, soffocato. Anche io ho imparato tanto dalla nostra amicizia. Lei ancora non lo sa, ma fu un suo piccolo regalo, una trousse a forma di bambolina giapponese a liberarmi …

Alla prossima puntata!

Maria Rita & Rosanna

E così mi ritrovai avvolta da un velo… (terza parte)

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Seconda parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/02/03/e-cosi-mi-ritrovai-avvolta-da-un-velo-seconda-parte/

Ferrara-Bologna, giugno 2011. Fu in occasione del matrimonio dei bellissimi L. e Y. che conobbi per la prima volta l’Islam italiano. Mi accorsi di aver passato troppo tempo a conoscere i musulmani dai libri e che quello che avevo visto in Siria, per quanto prezioso, era solo una piccola parte del variegato mondo dell’islam. Mentre accompagnavo una delle damigelle in giro per Ferrara, a fare le ultime compere prima del gran giorno, scoprii con mia sorpresa che sì, potevo essere musulmana e indossare jeans e ballerine! Al matrimonio fui circondata da un tripudio di colori, musica, danza, buon cibo, risate, tanto calore e scoprii che potevo essere musulmana ed elegante, che non c’era alcuna necessità di reprimere la mia bellezza. A. e S. mi insegnarono che avevo il diritto di laurearmi, avere tanta passione per la mia ricerca, essere socialmente impegnata, occuparmi di politica, e allo stesso tempo portare il velo e avere un marito amorevole, che mi avrebbe compresa e sostenuta. Mentre passeggiavo con M., il giorno prima di partire, imparai a non sentirmi in colpa per essermi innamorata di un ateo, ma di confidare nella Misericordia di Dio, sempre. E improvvisamente i cespugli intorno a noi si riempirono di lucciole, rendendo quella serata magica e indimenticabile.

Avellino-Napoli, maggio-giugno 2012. Il velo come segreto da celare a tutti gli uomini tranne loro: gli uomini della mia vita. I miei familiari e soprattutto lui, l’uomo con cui speravo di intraprendere “un viaggio imprevisto, lontano dal solito itinerario costretto alla morsa dell’abitudine”* Solo lui aveva il privilegio di conoscere la mia essenza e così quella relazione diventava unica, speciale, esclusiva e con il mio velo sentivo di proteggere quell’amore dalla rovina. Per qualche motivo mi ritrovavo spesso a vestire i panni della moglie devota e mi piaceva tanto, perché sentivo di assomigliare alle donne della mia famiglia, alle donne del sud, soprattutto quelle del paesino di mia nonna Rosa, di cui per metà porto il nome, solo per metà appunto.

Avellino, febbraio-maggio 2013. Poco alla volta ritornai la Rosanna di sempre, quella dell’associazione cinematografica, quella impegnata in politica, quella dei concerti rock, quella che conosce tutta Avellino… Ancora una volta fu la Siria a spingermi fuori di casa: la mia Siria in guerra, oscurata, deturpata e violentata. Proiezioni di documentari, mostre, cene sociali, conferenze, raccolta fondi: cercammo, io con l’aiuto di persone preziose, di fare del nostro meglio per non dimenticare la Siria. Non avevo perso i miei contatti: amici e conoscenti erano sempre lì pronti a collaborare e mi guardavano come avevano sempre fatto. Il velo non aveva cambiato la stima e l’affetto che avevano per me e ciò mi fu confermato quando mi proposero di candidarmi per il consiglio comunale. La prima italiana, convertita all’islam a presentarsi velata ad una competizione elettorale! (vedi qui: http://win.ilciriaco.it/comuni/news/news/?news=31126&cat=8 )

* cit. Elettra, Carmen Consoli.

Continua….

 

 

E così mi ritrovai avvolta da un velo… (seconda parte)

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/01/26/e-cosi-mi-ritrovai-avvolta-da-un-velo-prima-parte/

Roma, gennaio 2011. Mi sentivo spaesata, confusa, avevo difficoltà ad esprimermi in italiano, la mia lingua madre. Avevo indossato un velo bianco e un cappotto lilla lungo, come mi aveva consigliato la mia cara coinquilina di Damasco; volevo essere radiosa e bella, per la mia mamma soprattutto, così mi truccai leggermente, sperando che avesse apprezzato. La mia famiglia mi accolse all’aeroporto con grande calore; sembravano sollevati dopo una lunga ed estenuante attesa durata quattro mesi. Non mi ero mai allontanata da casa per tanto a lungo prima di allora … casa … non sapevo più quale fosse la mia casa. E soprattutto: chi ero io?

Avellino – Napoli, febbraio – giugno 2011. La domanda più importante era diventata: “da dove vieni?” A questa seguiva spesso una sorta di interrogatorio, come se fossi colpevole, come se dovessi giustificarmi per qualcosa…molti si aspettavano da me risposte su ogni genere di argomento relativo all’islam. Qualcuno, considerandomi “una povera immigrata” mi mostrava solidarietà di circostanza, rivolgendosi a me dolcemente, parlando in un italiano semplificato e poi, di colpo, una volta svelata la verità, diventavo una traditrice, una pazza, una possibile terrorista…

Alcuni mi consigliarono di abbandonare il mio velo, per evitare questi piccoli fastidi . Io me ne stavo in silenzio, in pace, rispondevo con dolcezza e andavo dritta per la mia strada. Limitavo molto i miei contatti con il mondo esterno e in particolare tenevo alla larga gli uomini, tentando di nascondermi il più possibile. Speravo di laurearmi presto e di tornare nella mia amata Siria, dove avrei potuto imparare bene l’arabo e praticare la mia religione in pace.

Il velo rappresentava, in quel periodo, il mio legame con la Siria, in particolare con le donne che avevo incontrato lì e che mi avevano aiutato a riscoprire la femminilità e la fede in un modo inconsueto. Laggiù ci sono tornata solo con il cuore e con la mente; più mi mancava e più il mio velo restava saldo sulla testa. Svelarmi avrebbe spezzato il mio legame con quella terra, che, ho impiegato anni a comprenderlo, più di ogni altra cosa mi aveva insegnato la Bellezza …

Continua…

E così mi ritrovai avvolta da un velo… (prima parte)

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Damasco. Novembre 2010. Erano passati pochi giorni da quando avevo pronunciato la shahada, da quando avevo scoperto il mio nuovo nome, Maryam. Ero abbastanza confusa, frastornata, avvertivo sempre un leggero tremolio alle gambe, come se stessi muovendo i primi passi su una strada sconosciuta e per certi versi spaventosa. I miei capelli corti e spettinati godevano ancora della luce del sole e del soffiare del vento; le mie braccia invece provano uno strano fastidio a mostrarsi in pubblico. Così, nonostante il caldo cominciai ad indossare sempre le maniche lunghe quando uscivo di casa. Mi sentivo protetta, sentivo che stavo imparando a prendermi cura di me stessa e in qualche modo, la fede da poco scoperta assumeva una dimensione intima, segreta e si diradava nel mio cuore. Un giorno la febbre alta e una terribile infiammazione, mi costrinse a coprire parte della testa e del volto per evitare il freddo, che avrebbe potuto peggiorare la mia situazione. Una mia compagna di scuola, con cui avevo parlato poco fino ad allora, vestita con una lunga tunica grigia e un copricapo multicolore mi chiese se fossi diventata musulmana. “Sì, risposi, ma questa sciarpa la porto per via di un’infiammazione”. La donna mi raccontò la sua storia: proveniva da una piccola città al sud della Spagna e si era convertita all’islam qualche anno prima. Mi incoraggiò ad indossare il prima possibile il velo, e mi assicurò che una volta in Italia avrei affrontato diversi problemi, ma che Allah mi avrebbe aiutato. Mi sentivo così grata a Dio, per avermi indicato la strada da seguire e inoltre il velo mi piaceva davvero tanto! Ricordai quella volta che un maschiaccio mi aveva tirato i capelli e io per reazione li avevo tagliati a zero. Con il velo in testa avrei potuto portare i capelli lunghi un kilometro senza rischio! E poi era il modo più comodo per comunicare agli uomini le mie convinzioni rispetto al sesso e al matrimonio. Ma soprattutto avrei potuto mostrare la mia gratitudine a Dio per avermi indicato la strada da seguire, per avermi salvato dalla disperazione, per avermi mostrato tenerezza, come mi aveva insegnato Padre Paolo Dall’Oglio (vedi qui:https://lamiasiria.wordpress.com/2013/09/06/la-tenerezza-del-signore/ ). E così mi ritrovai con un fazzoletto in testa, ora ero diventata una delle donne che all’inizio del mio percorso di studi speravo di salvare!

Il ritorno in Italia non fu semplice …

Foto tratta dal sito manilagrace.com