La mia Siria – poesia di Francesca Scalinci

Una poesia dal titolo familiare, di seguito la traduzione italiana di “My Syria” di Francesca Scalinci, a seguire l’originale inglese e la traduzione araba a cura di Yassin Al-Haj Saleh)

 

La mia Siria 

La mia Siria non è

solo un luogo sulla mappa

Né  nomi di posti visti solo in sogno

Daraa, Dimashq, Homs, Hama, Halab

O meglio, la mia Siria

È  su una mappa

Di dolore invisibile

Che si stende da oceano a oceano

Da polo a polo

La mia Siria

Si rialza Sempre

Raccoglie la dignità

Ingoia gli affanni

E si mette a  lavoro

La mia Siria è il sorriso

Di ogni amico stretto tra le braccia

Brandelli di cuore qua e là sparsi

Familiari scomparsi

Come arti fantasma doloranti

La mia Siria dice: Alhamdulillah

Sia lodato Iddio

Sebbene dal cielo

Piova sangue

E non più pioggia

Così grave il dolore

Da crepare le ossa e spezzarle

Una ad una finché nulla rimane

La mia Siria

è negli occhi di chi in ogni angolo di questa terra

ricostruisce la vita mattone su mattone

Lacrima su lacrima su lacrima

La mia Siria piange e muore inascoltata

fiore schiacciato dal peso di un silenzio codardo,

Voce soffocata di chi più non è

O più non si trova

La voce del prigioniero

Ma la mia Siria è lotta per libertà, dignità e giustizia

E la mia Siria sorride e dice:

Le vedi queste ceneri?

Da queste ceneri risorgerò

Da queste ceneri rivivrò

Con queste ceneri chi sono

Ti mostrerò

Poi mi guarda negli occhi e dice:

Lo vedi questo sangue?

Lo vedi?

Questo sangue che mi inzuppa vesti, anima e mani?

Ne farò oro e gelsomino

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L’autrice Francesca Scalinci, è dottore di ricerca in Studi anglo-americani (Università Ca’ Foscari di Venezia),  in studi postcoloniali e letterature anglofone. A lungo si è occupata di Caraibi per passare negli ultimi anni, catturata quasi da un richiamo ancestrale, al Mediterraneo. Ha scritto di narrativa di “guerra” di Cipro,  Libano e  Palestina. Oltre alle pubblicazioni accademiche, scrive racconti per bambini e ragazzi, e poesie  quasi sempre in inglese. Nel 2013, inizialmente attraverso la strada del volontariato, si avvicina alla Siria. “Ogni siriano che conoscevo faceva crescere in me l’amore e il rispetto per questo popolo. Ho sentito dunque la necessità di conoscere più approfonditamente la storia siriana, passando presto dal volontariato all’attivismo.”Io, che in Siria non sono mai stata, escluso il Jawlan occupato, amo profondamente questo paese e questo popolo.” racconta Francesca. Al momento è impegnata in un progetto di scrittura, ancora in nuce, riguardante proprio la Siria. Alla Siria sono anche dedicate due poesie a cui tengo molto: “I Am No Syrian Woman” e appunto “My Syria” (di seguito il testo originale inglese e la traduzione araba di Yassin Al-Haj Saleh)

My Syria 
My Syria is not
Just a place on the map
It’s not just the name of places
I’ve only seen in my dreams
Daraa, Dimashq, Homs, Hama,Halab
My Syria lies on a map
Of invisible pain
Stretching from ocean to ocean
From pole to pole
My Syria
Always gets back on her feet
She collects her dignity
Swallows her sorrows
And goes back to work
My Syria is the smile
Of every friend
I’ve held in my arms
Heart scattered around
Missing family members
Like aching phantom limbs
My Syria says
Alhamdulillah, praise be to God
Even when the sky’s dripping blood
Instead of rain
And so unbearable is the pain
That bones start cracking
One after the other
Until nothing whole is left
My Syria’s in the eyes of those who
In every corner of the world
Rebuild life
Brick by brick by brick
Tear after tear after tear
My Syria dies and cries
But goes unheard
It’s a flower crushed
Under the numbing silence
Of the coward
It’s the silenced voice of those
Who are no more
Or are nowhere to be found
But my Syria is struggle
For freedom, dignity and justice
And my Syria smiles and says
From these ashes I will rise
From these ashes I will live again
My Syria says, I will show you who I am
My Syria looks me in the eyes and says
You see this blood,
This blood covering my clothes?
I will turn it into jasmine and gold

سوريتي

سوريتي ليست مجرد مكان على الخريطة
ليست مجرد اسم لأمكنة
رأيتها في أحلامي: درعا، دمشق، حمص، حماه، حلب
سوريتي هي هناك على خريطة من الألم غير المرئي
تمتد من المحيط إلى المحيط
من القطب إلى القطب

سوريتي تقف على قدميها بعد أن تقع
تسترجع كرامتها
تبتلع أحزانها
وتعود إلى العمل
سوريتي هي ابتسامة كل صديق عانقته بين ذراعي
قلبه متناثر هنا وهناك
بين أفراد العائلة المفقودين
مثل وجع باقٍ لأطراف مبتورة
سوريتي تقول: الحمد لله!
حتى حين تقطر السماء دماً بدل المطر
وحين الألم لا يطاق
وحين تشرع العظام تطقطق
واحداً بعد الآخر
حتى لا يبقى بينها ما هو سليم

سوريتي هناك في عيون أولئك الذين في كل أصقاع العالم
يعيدون بناء الحياة
لبنة بعد لبنة بعد لبنة
دمعة بعد دمعة بعد دمعة

سوريتي تموت وتصرخ
لكن صوت صراخها لا يُسمع
إنها زهرة سحقت
تحت ثقل صمت مخدر
صمت الجبناء
إنها صوت أولئك الذين لم يعد يمكن العثور عليهم
لم يعودوا في أي مكان

لكن سوريتي هي كفاحٌ من أجل الحرية، الكرامة، والعدالة

سوريتي تبتسم وتقول
سوف أنهض من وسط هذا الرماد
ومن وسط هذا الرماد سأنبعث
سوريتي تقول: سوف أريكم من أنا

سوريتي تنظر إلي في العينين مباشرة، وتقول: أترين هذا الدم
الذي يغطي ثيابي؟
سوف أجعل منه ياسميناً وذهبا

La mia Siria – Il libro

A fine gennaio esce il libro “La mia Siria – l’umanità che resiste” pubblicato da Villaggio Maori Edizioni. Vi racconto com’è nato…

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Ho aperto il blog nel 2013, mi ero da poco trasferita in Germania e l’ideale della fantastica vita all’estero si era ormai sgretolato. Mi mancava l’Italia e la Siria mi sembrava più lontana da lassù. Soprattutto non riuscivo a trovare spazio per manifestare la mia solidarietà, come facevo in Italia. Ho aperto il blog, perché avevo paura di dimenticarla e nel terrore che la Siria fosse ricordata solo per gli orrori della guerra. Inizialmente ho pubblicato qualche ricordo, e poi ho invitato anche qualche amico a scrivere della sua Siria. Con il passare del tempo, però, non riuscivo più a guardare le immagini e a leggere le notizie che provenivano da quei giornalisti e persone comuni che coraggiosamente si sforzavano di documentare la verità. Dall’altro lato assistevo impotente al silenzio, l’indifferenza e la gravissima disinformazione che i media più seguiti diffondevano. Così ho mollato, ho cercato di dimenticare la Siria e vivere la mia vita normalmente, tanto non avrei potuto cambiare nulla. Un giorno, nel 2015, mi trovavo in un albergo in Puglia. La receptionist per caso finì sul mio blog e mi chiese: “sei tu l’autrice di questo?” e mi mostro lo schermo del suo smartphone aperto su questa pagina. “Sì” risposi sorpresa, “ma non lo curo tanto”. “Che bello, io lo leggo spesso, ma dov’è il libro?” Ecco mai avrei pensato che due anni dopo sarebbe arrivato quel giorno. Intanto la Siria mi inseguiva tra le strade di Mannheim e Heidelberg, dove quasi ogni giorno qualche siriano o siriana mi chiedeva informazioni. Mi inseguiva attraverso i ragazzi sopravvissuti alle prigioni del regime, ai sorrisi dei bambini del campo profughi Patrick Henry Village. Poi un giorno Natasha Puglisi di Villaggio Maori Edizioni capita sul mio blog e mi propone di scrivere un libro su “la mia Siria”. Insomma certi luoghi ti entrano dentro e non ti abbandonano mai… Da quel giorno è cominciato il mio viaggio nel passato, nel presente e nel futuro per raccontare la Siria, attraverso le persone che l’hanno conosciuta prima e dopo il disastro umanitario. Non è stato semplice, e spesso ho pensato di mollare, ma allo stesso tempo mi ha rimesso in pace con me stessa, con il mio dolore. Ha segnato l’inizio di nuove e preziose relazioni, perché in fondo la Siria per me sono le persone che me la ricordano, è l’umanità che resiste nonostante tutto.

Scheda del libro qui:

http://www.villaggiomaori.com/store/Rosanna-Sirignano-La-mia-Siria-p100045194

Bari Porta del Mediterraneo con Aeham Ahmad e Radiodervish

Bari 15 dicembre 2017

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È passato circa un anno dal suo concerto ad Heidelberg (vedi qui: http://cometarossa.org/2016/12/aeham-ahmad/) quando scopro con piacere che suonerà con una delle mie band preferite, i Radiodervish, in occasione della terza edizione del Festival Centro del Mundo.

Io e la mia compagna di viaggio arriviamo un paio d’ore prima l’inizio del concerto, facciamo un giro per il centro, cerchiamo un luogo, ma aspettiamo di incontrare tre persone anziane che chiacchierano in dialetto pugliese per chiedere la direzione giusta. “Guardate ragazze se andate di qui ve lo trovate di fronte”, ci indica uno dei tre. Così con calma, accompagnate dal vento freddo che si insinua nei vicoli giungiamo al mare buio, calmo, e Bari diventa la Porta che divide il grigiore e i rumori di una città mediterranea dai colori e le voci del mercato: il giallo, il rosso e il verde delle spezie, il blu, il viola, il magenta delle stoffe, la musica che accompagna il lavoro dei venditori, le voci di chi si racconta, di chi vende e acquista al miglior prezzo. La Porta che segna il confine tra la mente e il cuore, sempre in comunicazione, perché è una Porta che non si chiude e non si apre. E’ un arco che si erge trionfante, come la Sublime Porta, attraversata da forestieri accolti con un tè alla corte del sultano…

 

Abbiamo riservato un posto in prima fila per il concerto di Aeham Ahmad e Radiodervish, per non perdere neanche un’emozione. Attendiamo impaziente il suo ingresso, entra toccandosi la testa per ringraziare, come per dire ‘ala rasi, l’espressione araba che letteralmente significa “sulla testa” usata come segno di disponibilità e apertura. Le sue mani scivolano sul pianoforte con potenza, mentre immagini della sua Siria distrutta scorrono alle sue spalle. Tra una canzone e l’altra ci racconta della Siria, della Palestina, della difficile condizione di rifugiato. “Io uso la musica come arma contro la guerra. Lo so che non può cambiare niente ma almeno può far aprire la mente, può far incontrare nuovi mondi, persone diverse senza muoversi da casa propria.” Per tutti noi forse essere lì è un po’ come manifestare la nostra solidarietà alla Palestina, alla Siria, a tutti i popoli oppressi, per augurarci libertà e giustizia, frasi ridondanti, che abbiamo sentito mille volte eppure ancora abbiamo bisogno di ribadire. Nabil Bey dei Radiodervish ricorda che il Festival quest’ anno dedicato alle nostre identità fluide, è stato ideato per riflettere. “Chi sono io? Nato in Libano da famiglia palestinese, ma sono anche un po’ italiano o prendete Aeham, ora anche un po’ tedesco.” Ci si augura un’Italia libera dal pregiudizio, curiosa, accogliente, dove la diversità possa essere fonte di arricchimento e non minaccia. Il concerto è un invito a guardarsi dentro per scoprire chi realmente siamo lontani da ogni definizione. È inoltre un invito alla consapevolezza, alla coscienza politica e così si menziona la recente dichiarazione di Trump su Gerusalemme, inaccettabile considerando i delicati equilibri della regione, messi in pericolo da semplici parole. “Tanto a lui che importa” commenta Aeham “lui non vive nel West Bank”. Nabil invita ad un presidio di solidarietà a Bari che si terrà due giorni dopo, poi riprendono le noti delicate di una musica mediterranea senza tempo, che vorrei non finisse mai….

 

Vivere altrove…con la Siria e la Palestina nel cuore

 

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Di Francesco Petronella* e Rosanna Sirignano

Avere a cuore le sorti della Palestina e la Siria, augurarsi libertà e giustizia per entrambi i popoli, informarsi, conoscere, approfondire, aprire gli occhi e resistere alla tentazione di chiuderli è doloroso.

Oltre ogni schieramento ideologico, oltre ogni appartenenza culturale, oltre ogni orientamento politico o religioso, libertà e giustizia sono valori che non accettano compromessi. La sensibilità verso ogni singola realtà in cui queste due pietre preziose dell’esistenza umana vengono messe in pericolo è una spinta spontanea cui non riusciamo a sottrarci.

Tutto questo significa vivere in una condizione di lutto costante, dove il piacere e la gioia hanno poco spazio e non sono mai totali. Questo è il male che affligge tutti i “poveri consapevoli”, o quelli che semplicemente si sforzano di guardare oltre, si preoccupano di qualcosa che va al di là del loro orticello, che non si crogiolano nelle loro beate certezze. Purtroppo tutto ciò ha un prezzo alto, e non si chiede a nessuno di mostrare la stessa solidarietà, né di comprendere, ma almeno di tacere, di lasciarci in pace.

Infatti è doloroso per noi constatare che, anche tra quelli che per attivismo e interesse sono sensibili ai temi legati ad altre zone del mondo, esiste una sorta di “sensibilità a corrente alternata”, una sorta di doppio standard nel valutare e/o supportare una causa o l’altra.

La mobilitazione che in questi giorni ha seguito l’annuncio del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello stato d’Israele da parte di  Trump è stata commovente. Le manifestazioni in Cisgiordania e a Gaza come pure in Italia, Marocco, Tunisia e altrove hanno dimostrato ancora una volta che aveva ragione Nelson Mandela quando diceva che “la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Anche noi siamo visceralmente convinti che una pace equa e duratura tra Israele e Palestina non sia solo un obiettivo necessario per i due popoli, ma anche la prova generale per un modello di convivenza e di giustizia che riguarderà il mondo intero.

Però, alcuni di noi oggi sono in una situazione diversa. Donne e uomini che la Palestina ce l’hanno nel cuore, che l’occupazione l’hanno vista, che i controlli ai check-point israeliani li hanno fatti, che la Cupola della Roccia l’hanno contemplata nella sua struggente bellezza, che gli sfibranti controlli in aeroporto li hanno subiti. Proprio noi, sì, ci sentiamo un po’ più soli tra quelli che sognano una Palestina libera. Ci sentiamo osservati come se avessimo un bubbone sulla fronte, un segno che ci differenzia dagli altri, una macchia che ci distingue. Quella macchia, che invece noi rivendichiamo con orgoglio si chiama Siria.

Essere al fianco della resistenza palestinese e sostenere la rivoluzione siriana significa essere per lo più soli, soli di fronte a comunisti anti-imperialisti nostalgici dell’Unione Sovietica. Gente che pensa che chiunque si opponga agli Stati Uniti, che pure hanno fatto davvero molto per meritarsi la fama di destabilizzatori ed esportatori fallimentari di democrazia, sia necessariamente foriero di bene, anche se si tratta di un regime sanguinario macchiatosi dei più atroci crimini. Tutti noi, che crediamo in una Siria libera dalla dittatura, dal terrorismo e sosteniamo i siriani che combattono per impadronirsi del proprio destino di autodeterminazione, siamo anche a fianco del popolo palestinese. Proprio per questo, però, non riusciamo a capire perché il contrario non sia così scontato.

Molti di noi, guardando le manifestazioni spontanee organizzate nei giorni dopo l’affaire Gerusalemmeone_revolution_by_abosherkoshamalhawa-d7rgu0e, hanno sicuramente ripensato a quella splendida manifestazione per la Siria libera del 7 ottobre scorso. In quell’ occasione, a Roma, abbiamo gridato con forza che la giustizia e la libertà non sono valori da negoziare e lo abbiamo fatto sventolando bandiere siriane e, ovviamente, palestinesi. Quel giorno, forse, ci sarebbe piaciuto vedere anche tanti di quei volti che in questi giorni hanno riempito le strade per la Palestina.

Siria e Palestina. Due paesi, una volta identificati con l’unica denominazione “Bilad al-Sham”. Due contesti diversi, certo. Ma ancora una volta sottolineiamo che è di giustizia e libertà che si parla, valori universali e non negoziabili. Se a negarli è un regime di occupazione o un regime che assassina brutalmente il suo stesso popolo, per noi non fa alcuna differenza. Inoltre non dimentichiamo i migliaia di rifugiati palestinesi in Siria sono stati brutalmente torturati e uccisi.

Vivere con la Siria e la Palestina nel cuore significa vivere sempre altrove, significa essere immobilizzati continuamente da un senso di impotenza, consapevoli che il nostro esiguo sforzo è una goccia minuscola in un oceano immenso, che non cambierà le cose e che nel mondo ci sono altre realtà simili che di sicuro ignoriamo e, dati i nostri limiti, non possiamo comprendere. Significa vivere con profondo disagio i propri privilegi, i propri agi, significa dover stare in silenzio, soffocare le lacrime, sorridere nonostante le persone sorde e cieche che ci chiedono, talvolta, “chi ve lo fa fare?”

 

Foto da : https://abosherkoshamalhawa.deviantart.com

*Francesco, laureato in Lingue e civiltà Orientali, è apprendista giornalista per il24.it, ha scritto anche per ilsussidiario.net e qcodemagazine.it.

 

“Siria, tra realtà e propaganda”, la Napoli che non dimentica.

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Venerdì 27 ottobre si è svolta a Napoli, presso la sede della Federazione Universitaria Cattolici Italiani (FUCI) la conferenza “Siria, tra realtà e propaganda” organizzata dal Dott. Sami Haddad in collaborazione con Città della gioia, ONLUS.  Milena Annunziata (FUCI) e Gabriella Butera (Città della gioia) salutano il pubblico e gli ospiti ricordando di come i siriani, che nel 2011, sono scesi in piazza pacificamente ci hanno ricordato della rivoluzione culturale, di cui tutti avremmo bisogno in un mondo dove la democrazia va sgretolandosi. La conferenza si apre con la giovane laureata in Relazioni Culturali e sociali nel Mediterraneo, Marianna Barberio, che in modo chiaro e conciso delinea la storia degli Assad dal colpo di stato del 1971 a oggi, ponendo particolare enfasi sul controllo serrato sulla stampa, usata dal regime come maggiore strumento di propaganda. Il dott. Sami Haddad, docente di arabo siriano, in Italia dal 1976, in continuità con la relazione precedente ripercorre la tappe fondamentali della rivoluzione trasformatasi poi nella guerra tra potenze mondiali, che sta dilaniando la Siria da sette lunghi anni. “Negli anni della scuola sognavamo una città ideale fatta di scambio di conoscenza, democrazia, apertura, invece in Siria è stato fondato lo Stato del terrore, basato sulla repressione sistematica di ogni forma di dissenso.” Segue l’intervento del giovane laureato Marco De Falco, che ha dedicato le sue tesi di triennale e magistrale alla Siria. Con grande chiarezza delinea la situazione geopolitica del paese, facendo luce sulla complicata rete di interessi economici e politici delle potenze internazionali come Russia, Iran, Stati Uniti sulla regione. Si accenna anche alla tanto dibattuta questione del Kurdistan e in questa matassa difficile da sbrogliare sembra non essere facile schierarsi. Segue l’intervento di Giuseppe Reccia che ci parla dello scrittore Abdallah Maksur, scrittore siriano emigrato in Belgio, autore del primo romanzo-reportage dedicato alla rivoluzione. Conclude l’architetto e docente di arabo Alma Salem: “I monumenti senza le persone non contano nulla. Che senso ha piangere per palazzi storici, reperti archeologici e monumenti distrutti senza ricordare le persone che li hanno costruiti, il popolo che ha costruito la storia e la cultura del paese? Si parla di Patrimonio culturale dell’umanità, ma questa umanità agli occhi di molti è invisibile.” Forse la parte giusta è proprio l’umanità che resiste in Siria, nonostante tutto: i volontari dei Caschi Bianchi, ad esempio, che si recano nelle zone bombardate per recuperare corpi, pur sapendo che potrebbero essere bombardati di nuovo. Tutte le persone che per amore di un’idea, per la speranza di un cambiamento, per il bene comune sono stati rapiti, torturati e brutalmente uccisi. Oggi sembra svanire la speranza di un futuro radioso per la Siria, vergognosamente e ingiustamente dimenticata da molti.  A Napoli invece ci siamo seduti per ricordare, per riflettere e per comprendere. La bandiera della rivoluzione appesa al tavolo dei relatori, con la scritta “Siria Libera” sembra già un cimelio, un ricordo di una rivoluzione voluta da gruppi di diversi orientamenti politici, diverse visioni del mondo, ma con scopi comuni : la creazione di uno spazio democratico, dove si possa dare voce alle diverse componenti della società siriana, uno società equa e libera. Quella bandiera, dunque, non rappresenta una fazione, piuttosto che un’altra, rappresenta la società civile siriana, con cui purtroppo l’opinione pubblica non ha solidarizzato.

Dov’è la tua casa, Nouruz?*

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“La mia casa è tra gli ulivi. Avevamo un grande giardino. C’erano sette grandi alberi di ulivo.

Ero un bambino, avevo 6 o 7 anni. E talvolta raccoglievo le olive con le mie piccole mani.

Quando avevo 13 anni, mi sedevo spesso tra gli ulivi e pensavo. Per esempio mi chiedevo: dove è Dio, perché non lo vedo? O perché non sono in grado di parlare con gli uccelli?

Direi che quel luogo, tra gli ulivi, è l’unica casa che ho conosciuto fino ad ora.
Ho ricordi molto intensi della mia infanzia trascorsa tra questi alberi. Penso che i miei genitori attraverso l’uliveto hanno educato il mio cuore. Li penso, mentre si prendevano cura di quegli alberi

Ora capisco che nella natura si ritrova quanto di più pacifico il mondo possa offrire “.

 

Nouruz da Qamişlo, Rojava (Kurdistan siriano), studia Etnologia e Storia in Germania, dove è arrivato nel 2013.

 

*Tradotto e adattato dal tedesco:

https://insani2017.wordpress.com/2017/09/23/wo-hast-fuehlst-du-dich-am-meisten-zuhause-nouruz/

 

Buon compleanno Razan

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“Razan si è rifiutata di fuggire. Per lei era importantissimo che la storia registrasse la verità della rivoluzione, e per questo doveva rimanere in Siria. Ciò a cui ha aderito è la libertà – libertà dall’oppressione e libertà dalla paura.” così Rana, sorella di Razan Zaitouneh, di cui oggi 29 aprile, celebriamo il compleanno. Il 9 dicembre 2013 insieme al marito Wael Hammadeh, Samira Khalil e Nazem Hammadi è stata sequestrata da gruppi jihadisti a Ghuta, nella periferia di Damasco. * E Ghuta ritorna nei racconti di Yunis, un farmacista di Damasco, che incontro insieme all’amico Yassin, commerciante di Aleppo, in un caffè in una piccola città a nord della Germania. Yunis ha lavorato per tre anni nel Free Syrian Army come assistente medico, pur non avendo alcuna competenza. Nell’agosto del 2013 aveva prestato soccorso alle persone ferite durante l’attacco chimico di Ghuta e sui responsabili della tragedia non ha dubbi: il regime di Bashar e i suoi alleati. Prova rabbia, perchè ha sentito dire che ci sono persone in Europa che vogliono far credere che l’attacco non abbia mai avuto luogo. “Io le facce di tutte quelle persone morte atrocemente le ricordo una per una.” Mi racconta di aver imparato ad effettuare diverse operazioni chirurgiche in pochissimo tempo, con qualsiasi strumento a disposizione, spesso avendo a disposizione solo la luce dello smartphone. Ma tentare di salvare delle vite umane in Siria è un crimine: due volte, per un periodo di tempo che non ricorda esattamente, forse due o tre mesi, Yunis è stato rinchiuso nelle prigioni di Mezzeh, in una cella con un altro centinaio di persone, dove riuscivano solo abbassarsi ed alzarsi per consentire al corpo di fare un po’ di movimento. A questo punto mi ricordo di Razan e del suo compleanno: ” questo mi insegnate voi oggi, gli dico, il coraggio di lottare per la libertà”. Gli occhi di Yunis e dell’amico Yassin si inumidiscono, entrambi annuiscono e uno di loro dice: “Ora però è finita. Abbiamo perso. La rivoluzione non c’è più.” Si cambia argomento, abbiamo bisogno di prendere una pausa dal dolore, così gli racconto della mia Siria, di come sono diventata musulmana, di quanto era bella e generosa la gente di Damasco. Mi confessano che tornerebbero in Siria il prima possibile se potessero. Yassin lì aveva un negozio di abbigliamento e “qui in Germania – dice ridendo – faccio più o meno lo stesso lavoro. Sono volontario presso la Croce Rossa, dove seleziono vestiario da donare ai rifugiati.” Facciamo una breve passeggiata e al momento del congedo Yunis mi dice: “da oggi hai due nuovi familiari, due fratelli, quindi qualsiasi cosa chiamaci, ahlan wa sahlan”. Ecco, oltre al coraggio la Siria oggi mi ricorda l’umanità, mi conferma, che nonostante tutto, questo mondo ha ancora tanta bellezza da offrire.

*https://it.gariwo.net/giusti/coraggio-civile/un-altro-anno-senza-razan-zaitouneh-15003.html

Un minuto di silenzio per la Siria

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rosa nera

Ho letto e sentito tanti commenti sulla Siria in questi giorni. Analisi geopolitiche, articoli di approfondimento, opinioni sensate. Ho seguito quel tifo insensato. Ho cercato di capire, di dare un senso a fatti dai contorni troppo sfumati. Mi ha fatto impressione vedere come oggi possiamo scegliere la nostra verità in base a presunte convinzioni politiche, spacciandola per assoluta.

Poi, questa mattina, ho ottenuto un’intervista con un siriano di cui preferisco non riportare il nome. Vive a Damasco ed è originario di Aleppo. Si è raccomandato di chiamarlo su whatsapp, non al cellulare. Una chiamata ricevuta da un numero israeliano gli causerebbe problemi. Abbiamo discusso di Siria e quei famosi nomi – Trump, Assad, Ribelli, Putin, Hezbollah e chi più ne ha più ne metta – non sono mai stati pronunciati. E io sono stata costretta a cambiare la mia scaletta.

L’uomo ha scelto di descrivermi quello che aveva intorno. C’è una società che era giovane ma che non lo è più, oggi fatta di anziani, come i suoi vicini. Non vogliono andar via, che hanno da perdere. I ragazzi invece sono partiti ma non si sa dove siano. I bambini rimangono e necessitano tutti di un sostegno psicologico prima ancora di imparare a parlare. Se cade un piatto, hanno paura si tratti di un colpo di mortaio e scappano. Non piangono.

La sensazione è quella di essere in prigione. Di non potersi muovere. A Damasco, quella che era la capitale di uno stato oggi inesistente, la situazione non è drammatica come ad Aleppo. La vita va avanti. Attentati, sì, ma non bombardamenti a tappeto, soldati, eserciti, bus verdi, schieramenti, jihadisti, sfollati. Puoi andare al supermercato a far la spesa.

Però, se vivi a Damasco, il senso di colpa non ti abbandona mai. Quella sensazione di essere strangolato. Quell’imbarazzo di dover sempre far appello agli aiuti umanitari per poter campare. Quel voler ritrovare la tua dignità. Non lavori, chiedi il pane, sopravvivi. Quella paura che si insinua appena esci sul pianerottolo. Sapere di essere comunque più fortunato dei rifugiati che la città accoglie, tutte quelle persone dal dialetto bizzarro che arrivano dal Nord e dall’Est. Arrivano in cerca di ospedali, mi dice. Tutti i malati vengono a Damasco per curarsi, ma spesso non possono permetterselo. E allora bisogna, di nuovo, chiedere aiuto a qualcuno. E ti senti uno zerbino.

Conclude così: « qui siamo esausti. Stufi di subire la guerra degli altri ».

Stiamo zitti. Oggi non voglio leggere altri commenti sulla Siria.

Arianna Poletti

“Last Men in Aleppo”: In the heart of the conflict

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I was going to interview him, but the moment I met him, I did not need to ask any questions. A quick handshake, a few words introducing myself met with an intense gaze – he told me everything. This was my brief interaction with director Firas Fayyad, the mastermind behind the internationally-recognized film, Last Men in Aleppo.

“The screening tonight is sold out!”

The words glared at me jeeringly. I felt my heart sink quickly, disappointment rising. I had made plans to watch the exclusive screening and discussion of Last Men in Aleppo. The film was created by Firas Fayyad, a Syrian who himself had been tortured in regime prisons multiple times, simply for telling the truth.

My friend Huda (an American with Syrian and Danish origins) refused to give up. Within minutes, she found a screening in a nearby town and booked our tickets for a showing just two hours later. We had found access.

I rushed to catch the train, worried about getting to the movie in time. Sure enough, despite the city being only 20 kilometers away by car, the train took over 40 minutes – and I was fined 60 Euros for a misunderstanding over the train ticket. I had no time to argue. Belting it to the theater, I finally arrived, albeit 25 minutes after the film started.

Due to our late arrival, I began to doubt that it was worth going to the film. To be honest, I was afraid: I did not really want to watch the movie, to once again witness the horrors of Syria. Huda refused to turn away so soon. We had come so far, we had to attend.

Once I sat down, I let the images flow in front of me indifferently. My mind was elsewhere, preoccupied by the fine, devising tricks to avoid paying for it. The explosion of a bomb made me wince for a moment, bringing me back to the moment. In front of me, I saw children of Aleppo during a moment of ceasefire, happy-go-lucky kids on a playground with wide smiles that opened my heart to their pain. Rivers of tears began to flow from my tired eyes, as they are running right now while I write, as I attempt to share my emotions.

I let them moisten my face and flow freely, covering my mouth with a tissue, as to not disturb the audience. I choked a cry of pain, dismay, terror: a mixture that I have been carrying with me for six years and that I hope will never leave me. Through it I feel close to the Syrian people who had opened their arms to me, the Syria where I found myself. The pain I feel keeps my humanity alive.

At the end of thdsc03567e film, the lights turned on, leading to a conversation about the movie with Firas Fayyad. For me, there was nothing to be said. The movie had only reaffirmed the need to feel: to stop and cry all together for Syria, for humanity.

The most recurrent word in Firas Fayyad said was “human beings,” emphasizing the human. It is this that he attempts to show with his extraordinary documentary: that in Aleppo, in spite of the terrible situation, humanity still exists. Hope still prevails. The film shows this through the work of the White Helmets, presented as men who chose to stay in the land in which they were born and which they loved, a city that was slowly turning into rubble from nonstop cruelty, leaving the men to extract bodies both dead and alive.

The director is keen to point out that this is not a film about politics, but about people, the daily tragedies to which they have grown accustomed, the despair, the devastating pain and, above all, the love they continue to carry for life and for their land.

Amidst questions about the soundtrack, characters, and production, a man from Aleppo thanked Firas for having shown the truth, for having transferred the heart and soul of the people through the film. It was a brief break; quickly enough, the audience returned to commenting about the technical aspects of filming or about the political situation in Syria. A sense of discomfort and unease unfolded within me. Where was the heart of these people, the connection to humanity?

The question was irrational, for I know that we cannot ever leave aside the political dimension, yet despite this, I could not help but feel a frustration. In that moment, I wanted everyone to be silent, to realize that this film had given us a valuable opportunity: the chance to stop for a moment and cry for Syria, to grieve for the injustice and suffering happening not very far from us.dsc03565

Perhaps the most impactful scene was towards the end of the film, when one of the central characters of the film, Khaled, had been killed during a rescue mission. Firas, however, did not linger on the fact, aware of the role of the martyr in his country. Instead, he assured us: “Khalid’s wife just had a baby called like his father, Khaled.” Pulling up a photo on his phone, Firas showed us the baby boy, a beautiful child dressed in a beige onesie. “Now Khaled is back to life.”

Despite the devastation that Firas witnessed and conveyed through his film, across his attempts to touch upon humanity, amidst all the death he was surrounded by, life goes on, positively influenced by the little things. We just need to take a moment to be aware of the power carried in humanity.

edited by Huda Alawa

“Last men in Aleppo”- nel cuore del conflitto

380712Mannheim, 5.03.2017 Avevo intenzione di intervistarlo, ma poi non avuto bisogno di porre alcuna domanda: una rapida stretta di mano, poche parole per presentarmi, uno sguardo intenso, le sue cicatrici sono state sufficienti. Ripensando alle sue parole sul potere dello story telling, vi racconto la mia esperienza con il regista Firas Fayyad e il suo ultimo film Last Men in Aleppo.

Sold out per la proiezione di Last Men in Aleppo di Firas Fayyad, il regista che nel 2011 e´ stato torturato nelle prigioni siriane per aver raccontato la verità. Non ci scoraggiamo io e Huda, americana di origini siriane e danesi, impegnata dal 2013 per i rifugiati siriani. Ci sarà una proiezione non lontano dalla nostra Heidelberg. Treno in ritardo, per lo più a causa di un malinteso mi becco una multa di 60 euro. Il film è iniziato da ormai 25 minuti e io penso che forse non vale la pena entrare. Avevo paura, questa e´ la verità: questo film non lo volevo vedere, così, una volta seduta, ho lasciato che le immagini scorressero davanti ai miei occhi indifferenti, la mente altrove pensava alla multa ed escogitava stratagemmi per evitare di pagarla. Lo scoppio di una bomba mi ha fatto sussultare per un attimo, ma sono stati loro, i bambini di Aleppo che si concedevano momenti di felicità in un parco giochi, sono stati i loro sorrisi ad aprire il mio cuore al dolore. Fiumi di lacrime hanno cominciato a sgorgare dai miei occhi stanchi, come corrono in questo momento mentre scrivo, cercando di donarvi le mie emozioni. Ho lasciato che inumidissero il mio viso e scorressero libere, poi sono stata costretta a coprirmi la bocca con un fazzoletto, per non disturbare il pubblico. Soffocavo un grido di dolore, di sgomento, di terrore che da sei anni porto dentro di me e che spero non mi abbandoni mai, perché è così che mi sento vicina alla Siria, perché è così che mantengo viva la mia umanità. Alla fine del film ritorna la luce, si apre il dibattito, anche se per me non c’era nulla da dire, c’era solo da fermarsi e piangere, tutti insieme per la Siria, per l’umanità. La parola più ricorrente nel discorso di Firas Fayyad è appunto “human beings”, essere umani, perché ciò che lui mostra con il suo straordinario documentario è che ad Aleppo, nonostante tutto, l’umanità (r)esiste. Lo mostra attraverso l’operato dei Caschi Bianchi, presentati come uomini cha hanno scelto di restare nella terra dove sono cresciuti e che hanno amato per estrarre corpi sia morti che vivi, dalle macerie di una città distrutta dall’insensatezza, dalla crudeltà. Il regista ci tiene a precisare che qdsc03565uesto non è un film sulla politica, ma sulle persone, sulla tragedia quotidiana, sulla disperazione, sul devastante dolore e soprattutto sull’amore per la vita e per la propria terra. Tra una domanda e l’altra sulla scelta delle musiche e dei protagonisti, sulla produzione interviene un aleppino che ringrazia Firas per aver mostrato la verità, confessando di aver guardato il film con il cuore e l’anima. Ricominciano commenti sugli aspetti tecnici e poi domande sulla situazione politica in Siria e allora una punta di fastidio e disagio si dipana dentro di me. Dov’è il cuore di questa gente? Domanda irrazionale, ne sono ben consapevole, perchè chiaramente non si può lasciare da parte la dimensione politica. In quel momento, però, avrei voluto che tutti tacessero e si rendessero conto che quell’evento ci dava una preziosa occasione: fermarsi per un attimo e piangere per la Siria, piangere e addolorarsi per quanta ingiustizia e sofferenza ci sono non molto lontano da noi. La maggior parte dei volontari mostrati nel film hanno in seguito perso la vita: “La moglie di uno di loro ha appena avuto un bambino che ha chiamato come suo padre, Khaled” e Firas ci mostra la sua foto aggiungendo “ora Khaled è di nuovo in vita”. Nonostante tutto la vita continua e la vita è fatta di tante piccole cose, come pesciolini rossi comprati al mercato o una partita di calcio.”

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