Di seguito la seconda parte del racconto “Il caffè arabo” scritto nel 2008, ispirato al mio viaggio in Tunisia… Buona lettura e non esitate a lasciare i vostri commenti!

Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2016/04/03/il-caffe-arabo-parte-1/
Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza e il fervore di una giovane alla scoperta di nuove eccitanti esperienze. Approfondire la conoscenza dell’arabo era stato solo un pretesto per andare via da lui. Ero arrivata con la speranza di trovare un lavoro e stabilirmi lì per un po’ di tempo, ma naturalmente le fantasie difficilmente si tramutano in realtà. Ero sicura che fin lì non mi avrebbe seguito per pungermi ancora, per tormentarmi con il suo incessante sibilare. Per un po’ ero davvero riuscita a seminarlo, a non farmi scovare, ma poi lui mi aveva trovata. Così aveva avvolto la mia mente nel suo mantello scuro, aveva schiacciato il mio corpo sotto i suoi pesanti stivali, aveva stretto il mio cuore nelle sue mani sottili e ossute e mi aveva guardato fisso con i suoi occhi gelidi. Per un momento aveva congelato ogni mia sensazione sotto il suo sguardo penetrante e un attimo dopo mi aveva abbandonata lì per terra, stordita, frastornata. Inizialmente credevo si trattasse solo di una mia stupida paura e di una falsa impressione dettata dalla mia immaginazione, ma con il passare dei giorni avevo capito che era davvero tornato. Io ero disarmata, non avevo più difese contro di lui, non potevo combatterlo. Avevo necessità di formare una forte alleanza che mi aiutasse ad annientarlo ma non avevo nessuno, né in Italia né a Tunisi né in nessun altro luogo. Avevo passato in rassegna tutti i parenti, amici e conoscenti e avevo ormai realizzato che nessuno possedeva l’attitudine giusta per combattere al mio fianco. Non avrebbero capito, perché io non avevo parole per descrivere il mio nemico, non avevo mezzi per mostrarlo agli altri.
Qualcosa nell’aria aveva un sapore che non apparteneva né alla terra né al mare, era un profumo già sentito. Mi sollevai da terra e guardai intorno per capire da dove potesse provenire quel familiare odore. Non c’era nessuno a parte me, ma poco distante scorsi qualcosa simile ad un ristorante. Chiusi gli occhi e cercai di decifrare la fragranza a cui ben presto diedi il nome: caffè. Raccolsi la mia borsa e il mio telo e cercai con lo sguardo una via per giungere al ristorante. Con molta cautela discesi giù per gli scogli, così finalmente raggiunsi questo singolare luogo per la ristorazione posto praticamente sul mare. Un cameriere mi mostrò i suoi denti bianchi, che contrastavano con il colore scuro della sua pelle, in un cordiale sorriso. Mi invitò ad entrare e io accettai ben volentieri. L’odore del caffè si faceva sempre più intenso al mio procedere all’interno della sala delimitata da un chiosco in legno con il tetto di paglia. In fondo c’era una sorta di bancone da bar, dietro al quale un uomo stava per preparare il caffè alla maniera tradizionale. Osservai il lento procedimento con molta attenzione. Prima di tutto l’uomo riempì d’acqua il particolare bollitore dal lungo manico, l’ ibriq, in Tunisia denominato da alcuni con una parola che suona come “zazua”. Con un mortaio di pietra trasformò una manciata di chicchi di caffè in polvere fine. Poi, estrasse da un cassetto una capsula di cardamomo che con un delicato movimento ruppe facendone uscire i piccoli semi. Pestò anche quelli insieme al caffè, aggiungendo un pizzico di zafferano dall’eccentrico colore giallo. Mescolò il composto all’acqua contenuta nell’ibriq, che pose sul fuoco aspettando l’ebollizione. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel delizioso pentolino di rame, decorato con delle raffinate incisioni. Cercavo di identificare le forme e le lettere che ornavano quello strano utensile da cucina, e presto vidi dei fiori, degli alberi, addirittura degli uccelli, non distinguendo più la fantasia dalla realtà. Quando l’acqua bollì l’uomo tolse l’ibriq dal fuoco e io mi preparai subito ad assaggiare un po’ di quel caffè, pensando che fosse pronto. Al contrario, bisognava aspettare che si freddasse per poi ripetere l’operazione altre due volte. Restai lì seduta ad attendere che il lungo procedimento terminasse e intanto la mia mente intraprendeva viaggi in luoghi misteriosi e lontani. All’improvviso l’uomo diede un colpo secco al bollitore che fece precipitare la polvere di caffè sul fondo e riportò me sulla terra.
“Vuole?”- mi chiese in arabo. Annuii con la testa e dopo poco mi porse una tazzina di vetro arancione che vuotai lentamente per non scottarmi.
Decisi di restare lì per pranzo così mi accomodai ad un tavolo posto su una piattaforma sul mare. Diedi un’occhiata al menù, accorgendomi ben presto degli elevati prezzi attribuiti alle pietanze. Pensai che comunque valesse la pena gustare un pesce alla brace con quella vista meravigliosa e soprattutto a due passi dal mare. C’erano pochi turisti, soprattutto tedeschi, dunque poco rumorosi e per niente fastidiosi. Chiusi gli occhi e feci penetrare l’aria nei miei polmoni con una profonda inspirazione e la ributtai fuori con un soffio. Se avessi potuto allontanare lui come l’aria per cui bastava un semplice soffio, mi sarei sentita certamente più sollevata. Non era così purtroppo: lui aveva deciso di permanere nel mio corpo, nella mia mente, nel mio cuore forse per degli anni o magari per sempre. L’unica soluzione sarebbe stata quella di incontrarlo, avvicinarmi a lui gradualmente, imparare a conoscerlo per non averne più il terrore. Non potevo continuare a gettare i miei pesi sulle persone che mi volevano bene, nauseandole con i miei pensieri inutili e contorti. Era giunto il tempo di affrontare da sola il mio nemico, senza armi senza difese, senza alleati? Non lo sapevo; ero solo invasa da un’ oscura e soffocante angoscia.
“Posso sedere qui?”- mi chiese una voce maschile in perfetto arabo classico. Alzai lo sguardo e scorsi una figura alta e magra, di carnagione piuttosto chiara per essere un tunisino.
“Chi è lei?” – chiesi
“Mi chiamo Ilias, Ilias al-Madi”.
Fui molto sorpresa di quella curiosa coincidenza tanto che guardai meglio il mio interlocutore per scorgere tratti familiari, ma decisamente si trattava di un’altra persona. Feci cenno ad Ilias “secondo” di accomodarsi e chiesi precisazioni sul significato del suo cognome.
“Al-Madi significa “passato”.
“Passato”… –sospirai- “è una brutta parola”.
“Posso chiederle il perché?”- domandò Ilias “secondo”.
“Non dovrebbe chiedermi prima il nome?”
“È stata lei a introdurre l’argomento prima ancora di presentarsi…”-puntualizzò.
“Ha ragione”- affermai rassegnata.
“Allora signorina, quando riparte per l’Italia?”- mi chiese in un perfetto italiano.
“E lei come fa a sapere che sono italiana?”- gli chiesi un po’ sorpresa e un po’ infastidita dal mio accento traditore.
“Lo so e basta”.
“E lei di dov’è?”
“Dal luogo da cui proviene lei, signorina.”
“Mi sta prendendo in giro?”- domandai con tono scettico.
“No, davvero.”
“E come mai è qui?”
“Mi ci hai portato lei, signorina.”
Rimasi per un momento in silenzio a scrutare il mio interlocutore mentre molte domande si accalcavano nella mia mente. La mia ragione suggeriva di non credere alle sue parole, ma qualcosa di indefinibile dentro di me si fidava di quell’uomo.
“Secondo me dovrebbe partire”- Ilias ruppe il silenzio.
“E lei come lo sa? Non mi conosce neppure”- precisai con tono inspiegabilmente arrabbiato.
“Si calmi, volevo solo darle un consiglio, per il suo bene”- e Ilias sfoggiò uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto sul volto di un uomo. Purtroppo però la sua espressione conciliante non ebbe nessun effetto sul mio stato d’animo ormai in via di agitazione.
“E tu come lo sai cosa è bene e cosa è male per me?”
“Forse hai ragione io non lo so, ma tu lo sai?”
Quella domanda accrebbe l’ inquietudine nel mio petto che salì su per la gola formando un nodo stretto tanto da bloccare le mie corde vocali per qualche minuto. Restai in silenzio con gli occhi bassi sul piatto, che mi era stato appena servito. Ilias avvicinò una delle sue mani alla mia fronte che lambì con estrema delicatezza, quasi fosse un prezioso e delicato oggetto. Quella sensuale carezza, che provocava in me una sensazione di piacere e fastidio allo stesso tempo, fece aumentare la temperatura del mio corpo. Con un movimento istantaneo allontanai la sua mano dalla parte superiore del mio viso. Lo guardai con gli occhi che ormai stentavano a contenere le lacrime e scappai via.
Ilias al-Madi cingeva il mio corpo con le sue lunghe braccia, stringendo il mio viso sul suo caldo e morbido petto che accoglieva le mie lacrime con affetto quasi paterno. Era la prima volta che qualcuno non mi lasciava scappare da sola. Tutti avevano sempre creduto che il motivo delle mie fughe fosse la ricerca della solitudine. Io in realtà scappavo per essere inseguita, ma fino ad allora nessuno l’aveva mai capito. Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza di allontanarmi dalla mia più grande fonte di angoscia, sicura che fino a lì non mi avrebbe seguito. Forse sarei dovuta partire per una meta più lontana o forse avrei dovuto semplicemente nascondermi in un posto sicuro per sfuggirgli. Ilias continuava a stringermi forte e a poco a poco le lacrime smettevano di inumidire il mio viso. Quando mi fui definitivamente calmata quell’uomo dolce e premuroso mi condusse su uno scoglio dove trascorremmo, seduti, l’intero pomeriggio. Mi raccontò di una bambina a cui non piacevano le bambole ma solo i libri e le lunghe passeggiate in compagnia di suo padre. Mi raccontò di suo padre e della sua passione per le Mille e una notte, che narrava alla sua adorata figlia prima di andare a letto. “Buonanotte, mia piccola Sherazade”-le diceva dopo averle donato un dolcissimo bacio sulla sua piccola fronte. Mi raccontò degli amici immaginari della piccola, che abitavano il suo piccolo mondo incantato, costruito con la massima cura. Mi raccontò del corpo esile ed elegante di sua madre, Lisa, e dei variopinti vestiti che nel tempo libero realizzava per la sua amata bambina. Mi raccontò della lunga assenza di Lisa per il suo grave male. Mi raccontò di un adolescente, che a differenza di molti altri, aveva trovato nella madre una fedele amica e consigliera.
“Aveva con sua madre numerosi interessi in comune dal cinema ai libri su cui spesso fingevano di litigare”- mi disse Ilias tenendo le mie mani strette nelle sue- L’amicizia è il collante di tutti i tipi di rapporti d’amore, era la filosofia della mamma. Tra loro c’era una perfetta sintonia e una buona dose d’amicizia, senza oltrepassare mai il varco dei ruoli madre-figlia. Quando voleva Lisa”- e al sentire quel nome un brivido gelido percorse la mia schiena- “sapeva anche essere severa. Avevano l’abitudine di prendere il caffè ogni giorno, spesso in compagnia di una vicina di casa o di un’amica o di chiunque si fosse trovato lì in quel momento. Lisa era una donna molto ospitale che mal sopportava la solitudine e molto socievole con tutti. Sherazade, al contrario era un’adolescente timida ed introversa, desiderosa di diventare bella e disinvolta come sua madre. Anche il padre provava ammirazione per la sua adorata moglie a cui cercava di strappare i segreti di quel rapporto meraviglioso che era riuscita a costruire con sua figlia. Non erano più i tempi delle passeggiate e le favole, ora Sherazade non era più “la piccola”, era cresciuta e con lei la grinta e il fervore di un adolescente. Quando litigava con suo padre si dimenticava della sua timidezza e tirava fuori tutta l’ aggressività di una ragazza di quell’età. Gli scontri con Lisa erano più rari, ma più bellicosi. Riuscivano a dirsi le peggiori cattiverie quando litigavano quelle due!”- e Ilias rise teneramente, poi proseguì- “Sherazade era molto fiera della sua famiglia e soprattutto della sua mamma, il faro verso il quale guardare quando si sentiva smarrita. Un giorno, però, il caffè, il cinema, i litigi, le risate svanirono nel nulla; la luce del faro si spense e la piccola Sherazade sarebbe diventata grande da sola. Non fu facile placare la rabbia che prigioniera nel suo corpo tentava di fuggire. Avrebbe voluto spaccarsi la testa o ferirsi un braccio o qualsiasi cosa per permettere a quella sensazione infernale di abbandonare le sue membra, invece restò immobile a fissare il vuoto. Gli anni successivi……………”
“…trascorsero tra i sempre più frequenti e talvolta violenti litigi con suo padre, tra gli eccessi dell’alcol e della droga e le numerose delusioni d’amore”- continuai io e aggiunsi:
“La conosco anch’io questa storia, Ilias al-Madi, permettimi di proseguire. Così Sherazade continuava a cercare qualcuno che potesse infondergli un po’ di quella forza di cui la madre era tanto carica, ma invano. Elemosinava affetto da chiunque fosse così caritatevole da offrirne. Poi aveva cominciato anche a vendere le poche cose che possedeva per comprare un po’ di calore. Era disposta ad ignorare i suoi bisogni a calpestare la sua dignità per ricevere un abbraccio, un bacio, una carezza o anche solo uno sguardo. Si accontentava anche di poche briciole nel tentativo di saziare quell’inappagabile fame d’amore. Quando la fame si sommò alla sete Sherazade mangiava e beveva tutto ciò che trovava sul suo camminò con avidità. Poi una volta s’imbatté in cibo avariato e acqua avvelenata e così cominciò la sua lenta disintossicazione. La sua cara mamma le aveva dato la possibilità di dimostrare di sapersela cavare anche senza il suo aiuto e lei era stata capace di distruggere persino quelle poche ma preziose…”- e la mia frase fu interrotta da un disperato pianto.
“Sherazade, non piangere, mia piccola Sherazade”- mi sussurrò piano Ilias accarezzandomi i capelli.
“Io sono come l’acqua del mare”-dissi tra le lacrime- “che insistente colpisce gli scogli e che poi torna indietro e nuovamente sbatte contro la roccia. Lei è testarda, come me, pensa di poterla rompere quella dura pietra. È ostinata non si arrende, continua ad infrangersi contro quei massi durissimi…”
“…e li corrode, molto lentamente, ma li corrode”- continuò Ilias- “non è testarda, è solo paziente.”
“Ma che senso ha?”
Ilias non rispose alla mia domanda. Mi prese per mano e mi condusse verso un complesso di scogli, indicandomene uno in particolare. Lo guardai attentamente e scorsi la figura di un cammello di cui si distinguevano perfettamente le gobbe e la testa.
“Chi l’ha scolpito?”- chiesi ingenuamente
“L’acqua.”
Allora capii che senso aveva l’eterno infrangersi delle onde, capii il perché del cardamomo e lo zafferano nel caffè, capii che Ilias era il mio passato da cui da allora ho cominciato ad imparare.
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