E così mi ritrovai avvolta da un velo… (terza parte)

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Seconda parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/02/03/e-cosi-mi-ritrovai-avvolta-da-un-velo-seconda-parte/

Ferrara-Bologna, giugno 2011. Fu in occasione del matrimonio dei bellissimi L. e Y. che conobbi per la prima volta l’Islam italiano. Mi accorsi di aver passato troppo tempo a conoscere i musulmani dai libri e che quello che avevo visto in Siria, per quanto prezioso, era solo una piccola parte del variegato mondo dell’islam. Mentre accompagnavo una delle damigelle in giro per Ferrara, a fare le ultime compere prima del gran giorno, scoprii con mia sorpresa che sì, potevo essere musulmana e indossare jeans e ballerine! Al matrimonio fui circondata da un tripudio di colori, musica, danza, buon cibo, risate, tanto calore e scoprii che potevo essere musulmana ed elegante, che non c’era alcuna necessità di reprimere la mia bellezza. A. e S. mi insegnarono che avevo il diritto di laurearmi, avere tanta passione per la mia ricerca, essere socialmente impegnata, occuparmi di politica, e allo stesso tempo portare il velo e avere un marito amorevole, che mi avrebbe compresa e sostenuta. Mentre passeggiavo con M., il giorno prima di partire, imparai a non sentirmi in colpa per essermi innamorata di un ateo, ma di confidare nella Misericordia di Dio, sempre. E improvvisamente i cespugli intorno a noi si riempirono di lucciole, rendendo quella serata magica e indimenticabile.

Avellino-Napoli, maggio-giugno 2012. Il velo come segreto da celare a tutti gli uomini tranne loro: gli uomini della mia vita. I miei familiari e soprattutto lui, l’uomo con cui speravo di intraprendere “un viaggio imprevisto, lontano dal solito itinerario costretto alla morsa dell’abitudine”* Solo lui aveva il privilegio di conoscere la mia essenza e così quella relazione diventava unica, speciale, esclusiva e con il mio velo sentivo di proteggere quell’amore dalla rovina. Per qualche motivo mi ritrovavo spesso a vestire i panni della moglie devota e mi piaceva tanto, perché sentivo di assomigliare alle donne della mia famiglia, alle donne del sud, soprattutto quelle del paesino di mia nonna Rosa, di cui per metà porto il nome, solo per metà appunto.

Avellino, febbraio-maggio 2013. Poco alla volta ritornai la Rosanna di sempre, quella dell’associazione cinematografica, quella impegnata in politica, quella dei concerti rock, quella che conosce tutta Avellino… Ancora una volta fu la Siria a spingermi fuori di casa: la mia Siria in guerra, oscurata, deturpata e violentata. Proiezioni di documentari, mostre, cene sociali, conferenze, raccolta fondi: cercammo, io con l’aiuto di persone preziose, di fare del nostro meglio per non dimenticare la Siria. Non avevo perso i miei contatti: amici e conoscenti erano sempre lì pronti a collaborare e mi guardavano come avevano sempre fatto. Il velo non aveva cambiato la stima e l’affetto che avevano per me e ciò mi fu confermato quando mi proposero di candidarmi per il consiglio comunale. La prima italiana, convertita all’islam a presentarsi velata ad una competizione elettorale! (vedi qui: http://win.ilciriaco.it/comuni/news/news/?news=31126&cat=8 )

* cit. Elettra, Carmen Consoli.

Continua….

 

 

E così mi ritrovai avvolta da un velo… (seconda parte)

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/01/26/e-cosi-mi-ritrovai-avvolta-da-un-velo-prima-parte/

Roma, gennaio 2011. Mi sentivo spaesata, confusa, avevo difficoltà ad esprimermi in italiano, la mia lingua madre. Avevo indossato un velo bianco e un cappotto lilla lungo, come mi aveva consigliato la mia cara coinquilina di Damasco; volevo essere radiosa e bella, per la mia mamma soprattutto, così mi truccai leggermente, sperando che avesse apprezzato. La mia famiglia mi accolse all’aeroporto con grande calore; sembravano sollevati dopo una lunga ed estenuante attesa durata quattro mesi. Non mi ero mai allontanata da casa per tanto a lungo prima di allora … casa … non sapevo più quale fosse la mia casa. E soprattutto: chi ero io?

Avellino – Napoli, febbraio – giugno 2011. La domanda più importante era diventata: “da dove vieni?” A questa seguiva spesso una sorta di interrogatorio, come se fossi colpevole, come se dovessi giustificarmi per qualcosa…molti si aspettavano da me risposte su ogni genere di argomento relativo all’islam. Qualcuno, considerandomi “una povera immigrata” mi mostrava solidarietà di circostanza, rivolgendosi a me dolcemente, parlando in un italiano semplificato e poi, di colpo, una volta svelata la verità, diventavo una traditrice, una pazza, una possibile terrorista…

Alcuni mi consigliarono di abbandonare il mio velo, per evitare questi piccoli fastidi . Io me ne stavo in silenzio, in pace, rispondevo con dolcezza e andavo dritta per la mia strada. Limitavo molto i miei contatti con il mondo esterno e in particolare tenevo alla larga gli uomini, tentando di nascondermi il più possibile. Speravo di laurearmi presto e di tornare nella mia amata Siria, dove avrei potuto imparare bene l’arabo e praticare la mia religione in pace.

Il velo rappresentava, in quel periodo, il mio legame con la Siria, in particolare con le donne che avevo incontrato lì e che mi avevano aiutato a riscoprire la femminilità e la fede in un modo inconsueto. Laggiù ci sono tornata solo con il cuore e con la mente; più mi mancava e più il mio velo restava saldo sulla testa. Svelarmi avrebbe spezzato il mio legame con quella terra, che, ho impiegato anni a comprenderlo, più di ogni altra cosa mi aveva insegnato la Bellezza …

Continua…

E così mi ritrovai avvolta da un velo… (prima parte)

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Damasco. Novembre 2010. Erano passati pochi giorni da quando avevo pronunciato la shahada, da quando avevo scoperto il mio nuovo nome, Maryam. Ero abbastanza confusa, frastornata, avvertivo sempre un leggero tremolio alle gambe, come se stessi muovendo i primi passi su una strada sconosciuta e per certi versi spaventosa. I miei capelli corti e spettinati godevano ancora della luce del sole e del soffiare del vento; le mie braccia invece provano uno strano fastidio a mostrarsi in pubblico. Così, nonostante il caldo cominciai ad indossare sempre le maniche lunghe quando uscivo di casa. Mi sentivo protetta, sentivo che stavo imparando a prendermi cura di me stessa e in qualche modo, la fede da poco scoperta assumeva una dimensione intima, segreta e si diradava nel mio cuore. Un giorno la febbre alta e una terribile infiammazione, mi costrinse a coprire parte della testa e del volto per evitare il freddo, che avrebbe potuto peggiorare la mia situazione. Una mia compagna di scuola, con cui avevo parlato poco fino ad allora, vestita con una lunga tunica grigia e un copricapo multicolore mi chiese se fossi diventata musulmana. “Sì, risposi, ma questa sciarpa la porto per via di un’infiammazione”. La donna mi raccontò la sua storia: proveniva da una piccola città al sud della Spagna e si era convertita all’islam qualche anno prima. Mi incoraggiò ad indossare il prima possibile il velo, e mi assicurò che una volta in Italia avrei affrontato diversi problemi, ma che Allah mi avrebbe aiutato. Mi sentivo così grata a Dio, per avermi indicato la strada da seguire e inoltre il velo mi piaceva davvero tanto! Ricordai quella volta che un maschiaccio mi aveva tirato i capelli e io per reazione li avevo tagliati a zero. Con il velo in testa avrei potuto portare i capelli lunghi un kilometro senza rischio! E poi era il modo più comodo per comunicare agli uomini le mie convinzioni rispetto al sesso e al matrimonio. Ma soprattutto avrei potuto mostrare la mia gratitudine a Dio per avermi indicato la strada da seguire, per avermi salvato dalla disperazione, per avermi mostrato tenerezza, come mi aveva insegnato Padre Paolo Dall’Oglio (vedi qui:https://lamiasiria.wordpress.com/2013/09/06/la-tenerezza-del-signore/ ). E così mi ritrovai con un fazzoletto in testa, ora ero diventata una delle donne che all’inizio del mio percorso di studi speravo di salvare!

Il ritorno in Italia non fu semplice …

Foto tratta dal sito manilagrace.com

La mia Aleppo

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Aleppo per me e´ in particolare una persona, una giovane donna incontrata a Damasco nell´ottobre 2010, poco prima di scoprire il mio secondo nome, Maryam, poco prima di scoprire la mia fede. Voleva imparare l´italiano, perché presto si sarebbe sposata e trasferita in Nord Italia, dove il suo futuro marito viveva da 15 anni. Così ogni giorno ci incontravamo e tra una risata e l´altra io le insegnavo la mia lingua e lei la sua. Poco dopo lasciò Damasco per ritrasferirsi ad Aleppo dalla sua famiglia. Le ripromisi di farle visita il prima possibile, ma purtroppo il tempo passò e non ebbi l´occasione, così sconfortata la chiamai dicendo che tra pochi giorni sarei ritornata a casa e non avrei avuto il tempo di salutarla. “La prossima volta che vieni in Siria allora passa prima per Aleppo e poi vai a Damasco, anzi puoi anche stare qui tutto il tempo che vuoi.” Mi propose e io le assicurai che sarei di certo ritornata in Siria o altrimenti se lei si fosse trasferita in Italia ci saremmo di sicuro viste lì. Poi una mattina ricevo una telefonata dalla Syrian Air che mi informa della cancellazione del mio volo. Sarei partita quattro, cinque giorni più tardi. Fantastico! Avrei rivisto la mia amica, l´avrei potuta riabbracciare e sorprenderla con il mio hijab (lei non sapeva che intanto ero diventata musulmana). E cosi´ partii per Aleppo, dove trascorsi pochi giorni in compagnia della mia amica e le sue sorelle. Non facemmo altro che mangiare, ridere e scherzare: dal suq, alla moschea degli Ommayadi, passando per la cittadella, finimmo sulle giostre, poi in un centro commerciale, in un fast food e tornate a casa verso la mezzanotte la giornata si concluse con una buonissima cena preparata amorevolmente dalla mamma della mia amica.

In queste ore ho il terrore che insieme ad Aleppo svaniscano anche i miei pochi ricordi ed e´ per questo che mi sforzero´ di mettere tutto per iscritto. Chiederei il vostro contributo per non dimenticare: chiunque abbia dei ricordi di Aleppo che ha il piacere di condividere mi scriva su facebook o alla mail lamiasiria@libero.it.

La memoria può fare molto in questi momenti, almeno nei nostri ricordi Aleppo e´ più viva che mai!

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Il caffè arabo (parte 2)

Di seguito la seconda parte del racconto “Il caffè arabo” scritto nel 2008, ispirato al mio viaggio in Tunisia… Buona lettura e non esitate a lasciare i vostri commenti!

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2016/04/03/il-caffe-arabo-parte-1/

Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza e il fervore di una giovane alla scoperta di nuove eccitanti esperienze. Approfondire la conoscenza dell’arabo era stato solo un pretesto per andare via da lui. Ero arrivata con la speranza di trovare un lavoro e stabilirmi lì per un po’ di tempo, ma naturalmente le fantasie difficilmente si tramutano in realtà.                                                                                                                                     Ero sicura che fin lì non mi avrebbe seguito per pungermi ancora, per tormentarmi con il suo incessante sibilare. Per un po’ ero davvero riuscita a seminarlo, a non farmi scovare, ma poi lui mi aveva trovata. Così aveva avvolto la mia mente nel suo mantello scuro, aveva schiacciato il mio corpo sotto i suoi pesanti stivali, aveva stretto il mio cuore nelle sue mani sottili e ossute e mi aveva guardato fisso con i suoi occhi gelidi. Per un momento aveva congelato ogni mia sensazione sotto il suo sguardo penetrante e un attimo dopo mi aveva abbandonata lì per terra, stordita, frastornata.                                                                    Inizialmente credevo si trattasse solo di una mia stupida paura e di una falsa impressione dettata dalla mia immaginazione, ma con il passare dei giorni avevo capito che era davvero tornato. Io ero disarmata, non avevo più difese contro di lui, non potevo combatterlo. Avevo necessità di formare una forte alleanza che mi aiutasse ad annientarlo ma non avevo nessuno, né in Italia né a Tunisi né in nessun altro luogo. Avevo passato in rassegna tutti i parenti, amici e conoscenti e avevo ormai realizzato che nessuno possedeva l’attitudine giusta per combattere al mio fianco. Non avrebbero capito, perché io non avevo parole per descrivere il mio nemico, non avevo mezzi per mostrarlo agli altri.

Qualcosa nell’aria aveva un sapore che non apparteneva né alla terra né al mare, era un profumo già sentito. Mi sollevai da terra e guardai intorno per capire da dove potesse provenire quel familiare odore. Non c’era nessuno a parte me, ma poco distante scorsi qualcosa simile ad un ristorante. Chiusi gli occhi e cercai di decifrare la fragranza a cui ben presto diedi il nome: caffè.                                                                                                               Raccolsi la mia borsa e il mio telo e cercai con lo sguardo una via per giungere al ristorante. Con molta cautela discesi giù per gli scogli, così finalmente raggiunsi questo singolare luogo per la ristorazione posto praticamente sul mare. Un cameriere mi mostrò i suoi denti bianchi, che contrastavano con il colore scuro della sua pelle, in un cordiale sorriso. Mi invitò ad entrare e io accettai ben volentieri.                                                                                L’odore del caffè si faceva sempre più intenso al  mio procedere all’interno della sala delimitata da un chiosco in legno con il tetto di paglia. In fondo c’era una sorta di bancone da bar, dietro al quale un uomo stava per preparare il caffè alla maniera tradizionale. Osservai il lento procedimento con molta attenzione. Prima di tutto l’uomo riempì d’acqua il particolare bollitore dal lungo manico, l’ ibriq, in Tunisia denominato da alcuni con una parola che suona come “zazua”. Con un mortaio di pietra trasformò una manciata di chicchi di caffè in polvere fine. Poi, estrasse da un cassetto una capsula di cardamomo che con un delicato movimento ruppe facendone uscire i piccoli semi. Pestò anche quelli  insieme al caffè, aggiungendo un pizzico di zafferano dall’eccentrico colore giallo. Mescolò il composto all’acqua contenuta nell’ibriq, che pose sul fuoco aspettando l’ebollizione.  Non riuscivo a staccare gli occhi da quel delizioso pentolino di rame, decorato con delle raffinate incisioni. Cercavo di identificare le forme e le lettere che ornavano quello strano utensile da cucina, e presto vidi dei fiori, degli alberi, addirittura degli uccelli, non distinguendo più la fantasia dalla realtà. Quando l’acqua bollì l’uomo tolse l’ibriq dal fuoco e io mi preparai subito ad assaggiare un po’ di quel caffè, pensando che fosse pronto. Al contrario, bisognava aspettare che si freddasse  per poi ripetere l’operazione altre due volte. Restai lì seduta ad attendere che il lungo procedimento terminasse e intanto la mia mente intraprendeva viaggi in luoghi misteriosi e lontani.                                       All’improvviso l’uomo diede un colpo secco al bollitore che fece precipitare la polvere di caffè sul fondo e riportò me sulla terra.

“Vuole?”- mi chiese in arabo. Annuii con la testa e dopo poco mi porse una tazzina di vetro arancione che vuotai lentamente per non scottarmi.

Decisi di restare lì per pranzo così mi accomodai ad un tavolo posto su una piattaforma sul mare. Diedi  un’occhiata al menù, accorgendomi ben presto degli elevati prezzi attribuiti alle pietanze. Pensai che comunque valesse la pena gustare un pesce alla brace con quella vista meravigliosa e soprattutto a due passi dal mare. C’erano pochi turisti, soprattutto tedeschi, dunque poco rumorosi e per niente fastidiosi.                                                            Chiusi gli occhi e feci penetrare l’aria nei miei polmoni con una profonda inspirazione e la ributtai fuori con un soffio. Se avessi potuto allontanare lui come l’aria per cui bastava un semplice soffio, mi sarei sentita certamente più sollevata. Non era così purtroppo: lui aveva deciso di permanere nel mio corpo, nella mia  mente, nel mio cuore forse per degli anni o magari per sempre. L’unica soluzione sarebbe stata quella di incontrarlo, avvicinarmi a lui gradualmente, imparare a conoscerlo per non averne più il terrore.      Non potevo continuare a gettare i miei pesi sulle persone che mi volevano bene, nauseandole con i miei pensieri inutili e contorti. Era giunto il tempo di affrontare da sola il mio nemico, senza armi senza difese, senza alleati? Non lo sapevo; ero solo invasa da un’ oscura e soffocante angoscia.

“Posso sedere qui?”- mi chiese una voce maschile in perfetto arabo classico. Alzai lo sguardo e scorsi una figura alta e magra, di carnagione piuttosto chiara per essere un tunisino.

“Chi è lei?” – chiesi

“Mi chiamo Ilias, Ilias al-Madi”.

Fui molto sorpresa di quella curiosa coincidenza tanto che guardai meglio il mio interlocutore per scorgere tratti familiari, ma decisamente si trattava di un’altra persona. Feci cenno ad Ilias “secondo” di accomodarsi e chiesi precisazioni sul significato del suo cognome.

“Al-Madi significa “passato”.

“Passato”… –sospirai- “è una brutta parola”.

“Posso chiederle il perché?”- domandò Ilias “secondo”.

“Non dovrebbe chiedermi prima il nome?”

“È stata lei a introdurre l’argomento prima ancora di presentarsi…”-puntualizzò.

“Ha ragione”- affermai rassegnata.

“Allora signorina, quando riparte per l’Italia?”- mi chiese in un perfetto italiano.

“E lei come fa a sapere che sono italiana?”- gli chiesi un po’ sorpresa e un po’ infastidita dal mio accento traditore.

“Lo so e basta”.

“E lei di dov’è?”

“Dal luogo da cui proviene lei, signorina.”

“Mi sta prendendo in giro?”- domandai con tono scettico.

“No, davvero.”

“E come mai è qui?”

“Mi ci hai portato lei, signorina.”

Rimasi per un momento in silenzio a scrutare il mio interlocutore mentre molte domande si accalcavano nella mia mente. La mia ragione suggeriva di non credere alle sue parole, ma qualcosa di indefinibile dentro di me si fidava di quell’uomo.

“Secondo me dovrebbe partire”- Ilias ruppe il silenzio.

“E lei come lo sa? Non mi conosce neppure”- precisai con tono inspiegabilmente arrabbiato.

“Si calmi, volevo solo darle un consiglio, per il suo bene”- e Ilias sfoggiò uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto sul volto di un uomo. Purtroppo però la sua espressione conciliante non ebbe nessun effetto sul mio stato d’animo ormai in via di agitazione.

“E tu come lo sai cosa è bene e cosa è male per me?”

“Forse hai ragione io non lo so, ma tu lo sai?”

Quella domanda accrebbe l’ inquietudine nel mio petto che salì su per la gola formando un nodo stretto tanto da bloccare le mie corde vocali per qualche minuto. Restai in silenzio con gli occhi bassi sul piatto, che mi era stato appena servito.                                                           Ilias avvicinò una delle sue mani alla mia fronte che lambì con estrema delicatezza, quasi fosse un prezioso e delicato oggetto.  Quella sensuale carezza, che provocava in me una sensazione di piacere e fastidio allo stesso tempo, fece aumentare la temperatura del mio corpo. Con un movimento istantaneo allontanai la sua mano dalla parte superiore del  mio viso. Lo guardai con gli occhi che ormai stentavano a contenere le lacrime e scappai via.

Ilias al-Madi cingeva il mio corpo con le sue lunghe braccia, stringendo il mio viso sul suo caldo e morbido petto che accoglieva le mie lacrime con affetto quasi paterno. Era la prima volta che qualcuno non mi lasciava scappare da sola. Tutti avevano sempre creduto che il motivo delle mie fughe fosse la ricerca della solitudine. Io in realtà scappavo per essere inseguita, ma fino ad allora nessuno l’aveva mai capito.                                                                Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza di allontanarmi dalla mia più grande fonte di angoscia, sicura che fino a lì non mi avrebbe seguito. Forse sarei dovuta partire per una meta più lontana o forse avrei dovuto semplicemente nascondermi in un posto sicuro per sfuggirgli.                                                                                                                      Ilias continuava a stringermi forte e a poco a poco le lacrime smettevano di inumidire il mio viso. Quando mi fui definitivamente calmata quell’uomo dolce e premuroso mi condusse su uno scoglio dove trascorremmo, seduti, l’intero pomeriggio.                               Mi raccontò di una bambina a cui non piacevano le bambole ma solo i libri e le lunghe passeggiate in compagnia di suo padre. Mi raccontò di suo padre e della sua passione per le Mille e una notte, che narrava alla sua adorata figlia prima di andare a letto.         “Buonanotte, mia piccola Sherazade”-le diceva dopo averle donato un dolcissimo bacio sulla sua piccola fronte. Mi raccontò degli amici immaginari della piccola, che abitavano il suo piccolo mondo incantato, costruito con la massima cura. Mi raccontò del corpo esile ed elegante di sua madre, Lisa, e dei variopinti vestiti che nel tempo libero realizzava per la sua amata bambina. Mi raccontò della lunga assenza di Lisa per il suo grave male. Mi raccontò di un adolescente, che a differenza di molti altri, aveva trovato nella madre una fedele amica e consigliera.

“Aveva con sua madre numerosi interessi in comune dal cinema ai libri su cui spesso fingevano di litigare”- mi disse Ilias tenendo le mie mani strette nelle sue- L’amicizia è il collante di tutti i tipi di rapporti d’amore, era la filosofia della mamma. Tra loro c’era una perfetta sintonia e una buona dose d’amicizia, senza oltrepassare mai il varco dei ruoli madre-figlia. Quando voleva Lisa”- e al sentire quel nome un brivido gelido percorse la mia schiena- “sapeva anche essere severa. Avevano l’abitudine di prendere il caffè ogni giorno, spesso in compagnia di una vicina di casa o di un’amica o di chiunque si fosse trovato lì in quel momento. Lisa era una donna molto ospitale che mal sopportava la solitudine e molto socievole con tutti. Sherazade, al contrario era un’adolescente timida ed introversa, desiderosa di diventare bella e disinvolta come sua madre. Anche il padre provava ammirazione per la sua adorata moglie a cui cercava di strappare i segreti di quel rapporto meraviglioso che era riuscita a costruire con sua figlia. Non erano più i tempi delle passeggiate  e le favole, ora Sherazade non era più “la piccola”, era cresciuta e con lei la grinta e il fervore di un adolescente. Quando litigava con suo padre si dimenticava della sua timidezza e tirava fuori tutta l’ aggressività di una ragazza di quell’età. Gli scontri con Lisa erano più rari, ma più bellicosi. Riuscivano a dirsi le peggiori cattiverie quando litigavano quelle due!”- e Ilias rise teneramente, poi proseguì- “Sherazade era molto fiera della sua famiglia e soprattutto della sua mamma, il faro verso il quale guardare quando si sentiva smarrita. Un giorno, però, il caffè, il cinema, i litigi, le risate svanirono nel nulla; la luce del faro si spense e la piccola Sherazade sarebbe diventata grande da sola. Non fu facile placare la rabbia che prigioniera nel suo corpo tentava di fuggire. Avrebbe voluto spaccarsi la testa o ferirsi un braccio o qualsiasi cosa per permettere a quella sensazione infernale di abbandonare le sue membra, invece restò immobile a fissare il vuoto. Gli anni successivi……………”

“…trascorsero tra i sempre più frequenti e talvolta violenti litigi con suo padre, tra  gli eccessi dell’alcol e della droga e le numerose delusioni d’amore”- continuai io e aggiunsi:

“La conosco anch’io questa storia, Ilias al-Madi, permettimi di proseguire. Così Sherazade continuava a cercare qualcuno che potesse infondergli un po’ di quella forza di cui la madre era tanto carica, ma invano. Elemosinava affetto da chiunque fosse così caritatevole da offrirne. Poi aveva cominciato anche a vendere le poche cose che possedeva per comprare un po’ di calore. Era disposta ad ignorare i suoi bisogni a calpestare la sua dignità per ricevere un abbraccio, un bacio, una carezza o anche solo uno sguardo. Si accontentava anche di poche briciole nel tentativo di saziare quell’inappagabile fame d’amore. Quando la fame si sommò alla sete Sherazade mangiava e beveva tutto ciò che trovava sul suo camminò con avidità. Poi una volta s’imbatté in cibo avariato e acqua avvelenata e così cominciò la sua lenta disintossicazione. La sua cara mamma le aveva dato la possibilità di dimostrare di sapersela cavare anche senza il suo aiuto e lei era stata capace di distruggere persino quelle poche ma preziose…”- e la mia frase fu interrotta da un disperato pianto.

“Sherazade, non piangere, mia piccola Sherazade”- mi sussurrò piano Ilias accarezzandomi i capelli.

“Io sono come l’acqua del mare”-dissi tra le lacrime- “che insistente colpisce gli scogli e che poi torna indietro e nuovamente sbatte contro la roccia. Lei è testarda, come me, pensa di poterla rompere quella dura pietra. È ostinata non si arrende, continua ad infrangersi contro quei massi durissimi…”

“…e li corrode, molto lentamente, ma li corrode”- continuò Ilias- “non è testarda, è solo paziente.”

“Ma che senso ha?”

Ilias non rispose alla mia domanda. Mi prese per mano e mi condusse verso un complesso di scogli, indicandomene uno in particolare. Lo guardai attentamente e scorsi la figura di un cammello di cui si distinguevano perfettamente le gobbe e  la testa.

“Chi l’ha scolpito?”- chiesi ingenuamente

“L’acqua.”

Allora capii che senso aveva l’eterno infrangersi delle onde, capii il perché del cardamomo e lo zafferano nel caffè, capii che Ilias era il mio passato da cui da allora ho cominciato ad imparare.

Il caffè arabo (parte 1)

Di seguito la prima parte di un racconto scritto nel 2008, ispirato al mio viaggio in Tunisia (estate 2007), il primo paese arabo che ho visitato. Il racconto ha ottenuto un diploma di merito, benche´ fuori concorso, nell´ambito del concorso letterario “U.Fraccacreta” organizzato dal centro culturale internazionale “Luigi Einaudi” di San Severo.

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Il sole di Tunisi si faceva sentire con tutto il suo fervore sulla mia pelle ormai scura. Un lieve vento caldo s’insinuava nelle mie narici, nella mia bocca, tra i miei capelli. Avevo bisogno di bere acqua, ma quel giorno avevo dimenticato di portarla con me, così m’ incamminai per il chiosco più vicino.
Sentivo la testa pesante, le gambe gonfie, forse per il caldo, forse perché avevo riposato poco. Una sensazione di torpore e debolezza si diffuse nel mio corpo tanto che per qualche minuto non riuscii a proseguire il cammino. Fino ad allora il pregiudizio mi aveva impedito di bere caffè, ma quella mattina avevo urgenza di ritemprarmi e non potei rinunciarvi.
Mi fermai in uno di quei bar frequentato da soli uomini che dalle sei del mattino fumano narghilè e bevono limonata, capaci di eccitarsi alla vista di qualsiasi oggetto di genere femminile. Accompagnata dal sottofondo di risa e squallidi commenti di quei nullafacenti, aspettai il mio turno per ordinare e nell’attesa il mio sguardo non poté fare a meno di cadere sull’onnipresente immagine del presidente. Stavolta era raffigurato comodamente seduto su una poltrona a leggere il quotidiano, con tanto di occhiali da vista e una tazza di caffè accanto a lui.
– Un espresso, per favore- chiesi nel francese che mi ostinavo a non imparare.
Il barista raccolse dal bancone il cucchiaino che il signore accanto a me aveva appena usato per mescolare il suo caffè, lo bagnò sotto l’acqua corrente e lo pose nella mia tazzina.
I muscoli della mia faccia si contrassero in un’espressione tra la meraviglia e il disgusto.
– Con o senza zucchero?
– Senza, grazie.
Aveva un colore strano quel caffè e il bicchierino di vetro trasparente era pieno di calcare e non oso immaginare che altro. Sapevo che se davvero volevo vivere in quel posto dovevo abituarmi a questo genere di cose e c’era da farsi gli anticorpi, così mandai giù il caffè tanto velocemente da sentirne solo di sfuggita il sapore. Ero sicura che avesse un gusto pessimo, ma solo perché, per noi napoletani, il vero caffè  ce l’abbiamo solo noi, come la pizza, la pasta, il Vesuvio, la mozzarella, Capri, Sofia Loren…
Riposi il bicchierino di vetro sul bancone e chiesi una bottiglia d’acqua. Mi dissero che non l’avevano e io ne restai negativamente sorpresa.
Salutai e eccezionalmente nessuno mi chiese da dove venissi e se fossi sposata.
Trascinavo il mio corpo per le strade di Tunisi molto lentamente; la testa era ancora pesante e le palpebre faticavano a restare aperte. Pensai che quello che avevo appena bevuto non fosse vero caffè, altrimenti non si spiegava perché non avesse avuto alcun effetto tonificante sul mio corpo.
Ad ogni passo sentivo qualcosa di opprimente crescere dentro di me. Dapprima era come un nocciolo nella gola, poi come un piccolo sasso, poi ancora come una pietra che cresceva sempre di più spingendo contro il mio petto. Mi fermai, feci un lungo respiro e ingoiai quella poca saliva che non era stata ancora prosciugata dal caldo. Sentivo una sensazione di formicolio allo stomaco, come quella che si prova il primo giorno delle elementari, prima di un’interrogazione quando non sei sufficientemente preparato o il giorno dell’esame della patente di guida.
“Sarà stato quel dannato caffè in quel bicchiere sudicio..per non pensare a quel cucchiaino che chissà quante persone… oppure è lui che sta tornando?”
Cominciai a sudare e a respirare con fatica quando realizzai che la causa del mio malessere non era certo da attribuire a quel caffè tunisino, bensì era lui che era tornato a tormentarmi.
In una calda giornata di luglio sotto il cielo di Tunisi era tornato silenzioso, quieto. Per un po’ era rimasto in disparte ad osservare tutte le mie mosse così da scegliere il momento giusto per sferrare l’attacco.
Avevo bisogno di bere, così ripresi a camminare e finalmente raggiunsi il chiosco. Mandai giù quasi tutta l’acqua contenuta nella bottiglina, quasi nel tentativo di eliminare quell’orrenda sensazione che pervadeva il mio corpo. Per qualche minuto mi sentii meglio, ma poi un forte dolore allo stomaco diventava sempre più intenso. Cercai un posto dove sedermi, così entrai in un fast-food e occupai un tavolo. Immediatamente la cameriera mi chiese cosa ordinavo e le risposi che non gradivo nulla, ma anche nei fast-food di Tunisi non ci si può sedere senza consumare, così rassegnata chiesi un caffè.
Questa volta arrivò in una tazzina bianca come quelle che abbiamo in Italia. Dall’aspetto sembrava buono, ma io non avevo nessuna voglia di berlo. Insieme al caffè mi fu portata una piccola ciotola colma di zollette di zucchero.
Ne afferrai una, la rigirai tra le dita e pensai alla prima volta che vidi quel cubetto bianco.
Avevo cinque o sei anni, avevo accompagnato mio padre in ospedale a fare visita a mia madre. Come sempre aspettavo in sala d’attesa, di solito con un parente, ma quel giorno non era potuto venire nessuno. Passò di lì un’infermiera con il carrello porta vivande della colazione. Mi chiese che ci facevo lì tutta sola e io non le risposi, perché mio padre mi aveva insegnato a non parlare con gli sconosciuti. Allora, la graziosa infermiera mi sorrise e prese qualcosa da una scatolina e me le porse: una zolletta di zucchero appunto.
L’avevo scrutata così come stavo facendo quel giorno a Tunisi e poi colta da un’improvvisa paura l’avevo gettata con violenza a terra, quasi come se scottasse. Non solo mio padre mi aveva insegnato a non parlare con gli sconosciuti, ma anche a non accettare nulla da loro. In realtà quell’infermiera non mi sembrava cattiva, ma papà diceva pure di non fidarsi mai delle apparenze.
Sorridevo mentre pensavo a queste cose e continuavo a guardare la zolletta quasi fosse una pietra preziosa. Poi, cominciai a stringerla fra le mani, in modo sempre più forte che cominciò a sgretolarsi poco a poco. I granelli di zucchero finivano un po’ sul tavolo, un po’ nella tazza di caffè, che in questo modo era diventato per me imbevibile.
Presi un’altra zolletta e continuai lo stesso gioco. Via via frantumavo quei cubetti con più violenza e rabbia e ogni volta che se ne rompeva uno una lacrima rigava il mio viso.
– Tutto bene?- mi chiese la cameriera risvegliandomi dal sonno.
– Sì sì, grazie.
Mi asciugai il viso con il lembo della camicia e tentai di pulirmi le mani con un tovagliolo con scarsi risultati.
Uscii in strada e subii immediatamente gli effetti dello sbalzo di temperatura fra interno e esterno. Le mani mi cominciarono a sudare e quella destra diventò appiccicosa dallo zucchero rimasto dalla strage delle zollette.
Mi incamminai verso la Medina e intanto pregavo:
“Allah o chiunque tu sia, per favore aiutami! Mandalo via, ti prego! Non ce la faccio a sopportarlo!”
Quel giorno il suq sembrava più rumoroso e caotico del solito, i venditori più insistenti delle altre volte. Rapidamente attraversai la fila di bancarelle multicolore e giunsi alla moschea. Mi fermai là davanti e alzai gli occhi al cielo in cerca di qualcosa o qualcuno che mi proteggesse.
salām ‛ alaīkum
‛ alaīkum salām!- risposi contenta di sfoggiare il mio arabo.
min ’ayna anti? – mi chiese da dove provenissi.
min Italia.
’anā Ilias wa ’anti?
’anā Maria, tašarrafnā.
tašarrafnā.
Mi spiegò che era il muezzin della moschea e che era sempre felice di incontrare giovani stranieri, soprattutto se studiavano arabo.
Si esprimeva in arabo classico, in modo molto preciso e raffinato come non avevo mai sentito lì a Tunisi. Era giovane, magro, vestito di lino bianco e con un’espressione serena in volto. Mi chiese se mi andava di fare un giro per la Medina. Dapprima gli risposi di no, poi lui mi rassicurò dicendomi che voleva solo mostrarmi posti della Medina che certamente non avevo visto. Allora pensai che volesse spillarmi qualche soldo in cambio di un giro turistico per la città vecchia e non finii neanche di formulare il pensiero che egli disse:
– Non voglio soldi da te, non preoccuparti, vieni!-
“ Allora vuole qualcosa altro… ” –conclusi, attingendo dall’infinito bagaglio di stereotipi, che purtroppo circolavano nella mia testa.
– Non voglio neanche usarti per il mio piacere, né farti del male, davvero. Non aver paura!
Forse l’espressione del mio viso era particolarmente eloquente e lui di certo sapeva leggere bene le emozioni.
Decisi di fidarmi e così lo seguii per le viuzze della Medina. Mi condusse alla scuola coranica dove aveva studiato da bambino. Quando salmodiò una sura del Corano chiusi gli occhi e mi abbandonai al soave suono della sua voce.
Dopo un’ ora circa, ci fermammo per riposare in un caffè, evidentemente di proprietà di un suo amico.
– Hai mai assaggiato il tè alla menta?-mi chiese.
– Sì, in realtà non mi piace. È troppo dolce.
– Troppo dolce? E qual è il problema? Non ti piacciono le cose dolci?- mi guardò stupito.
– No, veramente no . Pensa che anche il caffè lo bevo amaro!
– Davvero? E come fai?
– Mi piace così.
– Allora altro che tè! Adesso ti faccio assaggiare una cosa speciale: Al- qahwa al- ‛arabiyya.
– Perché avete un modo particolare di fare il caffè?
– Aspetta e lo scoprirai- e poi rivolto al proprietario del locale- Rašīd portaci due qahwa.
Ci venne servito in delle piccole tazze senza manico decorate con fiori rossi e verdi. Non aveva un colore scuro, ma piuttosto presentava dei riflessi dorati che fecero sorgere in me qualche sospetto.
– È lo zafferano che gli dona quel colore- m’interruppe Ilias, quasi come se mi avesse letto nel pensiero.
Afferrai la mia tazzina con entrambe le mani e la portai al naso per odorarne la fragranza. Chiusi gli occhi e lasciai che il vapore emesso dalla bevanda calda mi inebriasse. Distinguevo benissimo l’aroma del cardamomo, che ero solita usare nelle mie pietanze.
Aprii gli occhi e guardai al mio bizzarro accompagnatore dapprima senza mostrare alcuna espressione, poi elargendogli un sorriso.
Sorseggiai lentamente quell’ atipico caffè e un misto di sapori ed odori allietarono il mio palato.
Poi ingoiai un sorso più grosso e allora le mie palpebre si chiusero nuovamente mentre una lacrima fredda, silenziosa, amara scorreva lenta sul mio viso.
– È buono?- mi chiese Ilias sussurrando.
Annuii con un cenno della testa e continuai a bere il mio qahwa.
Usciti dal caffè c’incamminammo per altre strette vie in cui potei ammirare la bellezza delle porte delle case, minuziosamente decorate. Ilias conosceva bene le persone del quartiere: le salutava e spiegava loro chi fossi, così loro salutavano anche me regalandomi quei sorrisi che appartengono solo agli arabi.
– Ecco- Ilias si fermò davanti ad una di quelle porte- questa è la mia casa.
La mente offuscata dal pregiudizio occidentale, da cui è difficile essere immuni, mi suggerì di stare attenta ad un possibile pericolo. Ilias fu in grado, anche quella volta, di tranquillizzarmi.
– Non posso farti entrare, perché sei da sola- mi spiegò con la voce più dolce che avessi sentito in vita mia – la prossima volta vieni con un amico, così ti mostro la mia casa.
– Grazie- gli risposi imbarazzata per aver dubitato della sua integrità morale.
Mi fece segno di aspettare e con una chiave che estrasse da un’ invisibile tasca dei pantaloni, dischiuse quel portone finemente decorato.
Al di là della porta c’era un piccolo giardino pieno di fiori e alberi.
– Questo è il mio giardino, puoi guardarlo da qui, ma non posso farti entrare- poi mi fece cenno di aspettare e varcò la soglia della porta.
Passò qualche minuto nel giardino, forse parlando con qualcuno e ne uscì stringendo qualcosa nella mano sinistra.
– Apri la mano- mi ordinò.
Gli porsi la mia mano sinistra ed egli vi fece scivolare sopra dei petali di gelsomino, poi me la richiuse in un pugno, come per custodire quel tesoro prezioso.
Lo ringraziai e gli chiesi di riaccompagnarmi perché stava facendo buio.
Solo quando giunsi al mio alloggio aprii la mano e feci cadere i petali sul pavimento. L’inconfondibile odore di gelsomino si profuse in tutta la stanza e a me sembrava di essere ancora in compagnia di quell’uomo misterioso.
La testa era diventata leggera, lo stomaco era ormai quieto, e anche quel peso che quasi m’impediva di respirare era ormai svanito.
Questa sensazione di benessere fu però solo momentanea. Il mattino dopo al mio risveglio lo ritrovai lì. Seguiva con lo sguardo ogni mio movimento e io quando incontravo i suoi occhi vitrei tremavo.
Nella speranza che fin lì non mi avrebbe seguito decisi di raggiungere il mare.
Un taxi mi portò fino alla stazione dei louage, mezzi di trasporto che solo a Tunisi si vedono, da cui partii per Al-Aouariyya .
Mi avevano detto che lì si poteva ammirare uno splendido paesaggio e soprattutto che era un luogo poco frequentato dai turisti.
Al-Aouariyya era molto diverso da Tunisi. Era un paese piccolo, con le strade non completamente asfaltate e le case bianche.
Chiesi informazioni stradali a una signora panciuta che trasportava un pesante fagotto sulla testa, ma purtroppo parlava solo dialetto. Dopo qualche metro giunse al mio olfatto un odore di saporitissimo pane caldo che seguii finché giunsi alla bottega di un panettiere. Mi chiese qualcosa in dialetto che chiaramente non compresi. Provai a comunicare in arabo, in inglese, francese e persino italiano, ma purtroppo non riuscivo a farmi capire. Allora ricorsi al linguaggio che noi mediterranei conosciamo bene, quello dei gesti. Comprai un po’ di pane caldo e lo gustai lungo il tragitto per il mare. Dovetti camminare molto prima di giungere ad un’altura al di là della quale si vedeva il mio tanto desiderato mare. Per giungere all’acqua bisognava attraversare degli scogli di un colore rosso ramato, che rendevano quel paesaggio davvero unico.
Finalmente trovai un masso su cui stare comodamente seduta, così distesi il mio telo viola e mi preparai a godere l’infuocato sole tunisino.
Chiusi gli occhi e lasciai che i raggi del sole penetrassero nella mia carne e vi diffondessero il tepore.

Continua….

Seconda parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2016/04/09/il-caffe-arabo-parte-2/

Il telaio di Penelope (1)

 

penelope Mi chiamo Penelope, vivo a Itaca, dove ogni pietra della strada ogni foglia di ogni albero, ogni goccia del mare potrebbe raccontarvi qualcosa di me. Oggi è una giornata insolita: non fa né caldo né freddo, il cielo non è ne azzurro né bianco. Tutto trasuda di incertezza, instabilità, dubbio …

 Sono stanca, le mie palpebre restano aperte a fatica, non sento più le mani che pazientemente tessono di giorno e stessono di notte… tesso e stesso, tesso e stesso, tesso e stesso.

 Ogni filo di quel sudario rappresenta un pezzo del mio dolore, della mia pazienza, del mio coraggio, della mia fedeltà, della mia vita. Mi manca, Ulisse, mi manca moltissimo, sento una voragine nel mio petto e non riesco più a trovare un punto nel mio cuore, nella mia testa, nel mio corpo dove risieda un po’ di speranza. Sono terrorizzata al pensiero che lui non torni più. Ho paura che non sia partito alla conquista di se stesso, attraverso i mille luoghi che visiterà e che non abbia capito il senso dei suoi viaggi. Se fosse così potrebbe continuare a viaggiare all’infinito e non tornerà mai da me. Chissà se starà usufruendo della sua umanità per assorbire tutta l’energia e la saggezza degli straordinari posti che sta visitando.. Tornerà da me forte del nostro amore e di quello che questo amore sarebbe capace di costruire? Io non lo tratterei qui a Itaca, ma partirei insieme a lui per altri straordinari viaggi, ma forse lui questo non lo sa.

Sono esausta, ne ho abbastanza di amare questa mia terra così tanto da temere di allontanarmi da  essa. Voglio che i miei piedi calpestino altre terre, che il mio corpo si bagni in altre acque, che i miei capelli vengano attraversati da un altro vento, che la mia pelle bruci sotto un altro sole.

“Mia cara amata Itaca, con il cuore pieno di gratitudine e riconoscenza per avermi accolto nel momento in cui sono venuta alla luce, il tuo suolo mi ha concesso di muovere i miei primi passi, le tue viuzze mi hanno permesso di scoprire ogni tuo angolo, di assaporarlo, di fare di esso il mio piccolo rifugio quando mi sentivo smarrita. Ogni cosa qui racconta di me, e ogni fibra del mio corpo è intrisa del tuo spirito, mia cara Itaca. Ora però è giunto il momento di partire, di allontanarmi da te, ma solo per un po’. Non temere ritornerò un giorno e poi ripartirò nuovamente per poi visitarti ancora. Non essere triste,mia dolce isola, perché tu vivi nei miei occhi, nella mia bocca, nel mio cuore, nella mia mente. Tu appartieni a me e io appartengo a te.”

 Rilessi velocemente quello che avevo scritto, convinta che sarebbe bastato poco a intraprendere questo mio viaggio: dovevo solo mettere qualcosa di utile in valigia, e camminare verso il porto, salpare su una nave… e via lontano da qui!

 C’era però qualcosa che mi teneva prepotentemente legata a quella terra, che mi immobilizzava,come un pesante macigno a causa del quale ogni movimento mi era impossibile. Respirai profondamente e mi stesi sul letto in preda ad un senso di impotenza improvviso. Poi, gli occhi caddero sul mio macigno, sulle mie catene, su ciò che aveva trasformato la mia casa in una prigione: il telaio.

Balzai dal letto in un momento e mi precipitai verso il telaio con l’intento di distruggerlo, ma una volta vicina qualcosa mi impedì di agire. Avevo trascorso sedici lunghi anni a tessere e stessere quei numerosi fili, di cui ormai conoscevo ogni singola fibra. Con amore e dedizione e pazienza avevo intrecciato quelle trame …Cosa avrei fatto senza il mio telaio? Come avrei trascorso la mia vita? Com’era la vita lontano da Itaca? Poteva esistere una Penelope senza telaio e lontano da Itaca? che cosa ne sarebbe stato dell’isola e di Telemaco? E se Ulisse tornasse mentre io sono via?

Il mio telaio e la mia Itaca, l’unica certezza che avevo a cui ero stufa di ancorarmi. Probabilmente mi sarei persa, non avrei mai più incontrato Ulisse, sarei stata infelice, avrei rimpianto di aver lasciato Itaca, ma in compenso avrei vissuto senza rimpianti. L’unica cosa che volevo in quel momento era vivere, vivere la mia umanità fino in fondo, vivere libera dalla rabbia che provavo nei confronti di Ulisse, nei confronti di chi non apprezzava i miei sforzi nel tenere in piedi il regno e nell’accudire Telemaco. Niente più incubi! niente più paure! niente più sensi di colpa! Dovevo andare, perdonare, perdonare me stessa per il dolore che mi ero inflitta in quei lunghissimi anni e così partii per un lungo viaggio che mi condusse in Siria. Mi stabilii per qualche tempo a Damasco, una città magica, di estrema bellezza, abitata da un popolo generoso, accogliente e coraggioso, che mi indicò quale via dovevo seguire per essere felice.

Ben presto mi accorsi che non era Ulisse che cercavo, ma qualcosa di più profondo, qualcosa di misterioso che non mi fu difficile riconoscere. Stavo cercando la fede, stavo cercando la mia spiritualità perduta, stavo cercando Dio…..

 

(Rosanna Maryam Sirignano)

alba

Ahlan wa sahlan ovvero l’ospitalità

foto dalla pagina fb "All about Damascus"
foto dalla pagina fb “All about Damascus”

Era tardo pomeriggio,  era passato circa un mese dal mio arrivo a Damasco. Avevo da poco traslocato in una nuova casa, in un quartiere popolare della capitale. Quel pomeriggio ero a casa di amici a discutere del più e del meno nel mio arabo sgangherato. Uno di loro mi dice di aver bisogno di un paio di lenzuola per il letto, ma di non avere alcuna voglia di uscire. Anche io avevo intenzione di fare lo stesso acquisto, e così gli propongo di fidarsi del mio gusto e lasciare a me il compito. Molto felice della gentile offerta, mi indica un negozio non molto lontano da lì dove avrei trovato della merce interessante.

Nonostante il pessimo senso dell’orientamento, riesco subito a trovare la strada e il negozio giusto. Terminato il mio acquisto, dovevo però tornare indietro: impresa ardua considerando che aveva cominciato ad imbrunire. Giro e rigiro per il quartiere non riconoscendo le case e le strade; in preda al panico cerco qualcuno a cui chiedere informazioni. Trovo una gentile signora anziana davanti alla sua porta di casa;mi dice di non aver capito bene in quale luogo dovessi andare. Mi chiede da dove venissi e come mi chiamassi e mi invita a prendere un tè con lei, perchè forse qualcuno dei suoi familiari avrebbe saputo aiutarmi. Così, dimentico le regole del tipo “non dar retta agli sconosciuti” e accetto volentieri l’invito.

La signora mi fa accomodare nel salotto dove erano esposte foto della Kaaba, di Medina e versetti del Corano. Conosco la sua splendida nipote di 12 anni , molto timida, ma incuriosita dalla “straniera”. Un quadro con un versetto del Corano scritto in caratteri dorati e finemente decorati attira la mia attenzione. La cara signora mi spiega che si tratta dell’ “ayyat al-kursi” ovvero il versetto del Trono. Mi spiega cosa voglia dire (ovviamente io dico “aywa aywa”, cioè “sì, sì” senza capire nulla) e mi dice che questo passo del Corano è molto importante per i musulmani. Da lì ci spostiamo sulle figure che mostrano le città di Mecca e Medina, e lei mi racconta che le aveva avute in dono da un parente che aveva partecipato al pellegrinaggio. La signora mi spiega molte cose riguardo all’Islam. Io non capisco molto, ma il suo invito alla fede in un unico Dio e nel suo Profeta Muhammad era molto chiaro. Mi chiede di quale religione fossi e io resto per un pò in silenzio, poi dico che non lo sapevo ancora, ma che mi sarebbe piaciuto un giorno diventare musulmana (mai avrei immaginato che quel giorno sarebbe arrivato dopo due settimane da quell’incontro). Poco dopo arrivano delle ragazze, forse nipoti o figlie della signora, e pian piano la sala si riempie. Mi invitano per cena, io inizialmente non accetto per imbarazzo, ma poi dopo le numerose richieste non posso che ringraziare e restare. L’uomo di casa esce a comprare shawarma e ayran (bevanda a base di yogurt) e tutti trascorriamo una piacevole serata. Mi sentivo una regina, seduta al centro della stanza con tutta la famiglia intorno che mi augurava il meglio per il mio futuro e allo stesso tempo mi sentivo una di loro, come se li conoscessi da tempo.

Foto dalla pagina Fb "All about Damascus"
Foto dalla pagina Fb “All about Damascus”

Dopo cena qualcuno mi acompagna alla mia destinazione. Quando raccontai, piena di emozione, dell’accaduto ai miei amici, tutti mi rimproverarono per aver agito in modo imprudente. Anche i miei amici siriani dissero che non avrei dovuto accettare di entrare in casa di una sconosciuta, perchè mi sarebbe potuto accadere di tutto. Avevano ragione in linea di principio, ma in quella situazione io avevo deciso di abbandonare la diffidenza, perchè negli occhi di quella signora avevo visto solo dolcezza, calore e un senso di ospitalità a me sconosciuto.

Quell’episodio e tanti altri mi hanno fatto molto riflettere sul nostro modo di concepire l’ospitalità: in Siria mi sono sempre sentita accolta, chi mi ospitava mi ha sempre fatto sentire a mio agio, mai mi sono sentita di essere un peso, mai mi sono sentita di troppo.

“Ahlan wa sahlan”, un’ espressione che significa “benvenuto” e molto usata dai siriani, non sono semplici parole, ma un modo di essere, un modo di rapportarsi agli altri. La parola “ahlan” è una locuzione avverbiale che significa “tra la gente” o in famiglia; la parola “wa” è la congiunzione “e”; la parola “sahlan” è un’altra locuzione avverbiale, da una radice che può significare “facile”, di cui il significato origianrio è “pianura”, “terra piana”, che era il luogo in cui gli antichi Arabi preferivano risiedere, in contrapposizione alle montagne. L’espressione è la forma abbreviata di un espressione più lunga (حَلَلْتَ أَهْلاً، وَوَطِئْتَ سَهْلاً) che può essere tradotto “Sei giunto tra la tua gente (o famiglia) e hai calpestato la tua terra abitata (o terra comoda). 

“Non importa se la mia casa sia piccola o grande, non importa se mangeremo poco o tanto, importa stare insieme e condividere emozioni e la mia casa è la tua.”

Spero tanto che quella famiglia stia bene e che Dio li benedica sempre e li ricompensi!