Siria, la casa del cuore

Di Linda Covato

Particolare di un suq ad Aleppo

Ma-smuki? /Ismi Linda. /Ah, Linda! Linda Ism 3arabi. Enti sadika. Enti mitla-na.

(come ti chiami? /Linda/Ah, Linda! Linda è un nome arabo. Sei un’amica, sei come noi!)

Un giorno sul taxi, tornando all’università: Enti min…./Min Italiya./Enti italiyya! al- italiyyin ka-l suriyyin!… ma b-3arif as-sabab./Mumkin li-l bahr mutawassit/Ee!!! kullu-na min al-bahr mutawassit!!!

(Vieni da…/dall’italia./Sei italiana! Italiani e siriani sono uguali….anche se non saprei il perché /forse per il Mediterraneo/Sì!!! tutti noi veniamo dal Mediterraneo!)

La mia Siria è bayt qalbi. O Galbi. O Kalbi. A seconda di dove vado. La mia casa del cuore.

Qualcosa che è capace di dare vita, anche solo con il ricordo di un odore, un sapore, una musica, un immagine, a un sorriso, un racconto, una lacrima.

Vinsi una borsa di studio nel 2008 per frequentare un semestre ad Aleppo, tramite la facoltà di Studi Orientali della Sapienza di Roma. Sarebbe stato un viaggio per me fondamentale. Ha gettato le basi della Linda che sono oggi.

Linda a scuola in Siria nel 2008

La mia Siria è una terra di contraddizioni. Di corruzione nascosta in piena vista. Dove due università si accordano per una borsa di studio ma quando arriviamo ad Aleppo, accolte (eravamo in due) da due squisiti professori del dipartimento di lingue straniere dell’università, raggiungiamo la Dar ad-diyafa (casa dell’ospitalità, una sorta di studentato) dove è previsto che alloggiamo. E ops nessuno sa che dovevamo arrivare. Però, magia, accordandoci per un affictto mensile più alto, ecco comparire due stanze tutte per noi.

È la stessa Siria dove per avere il visto di uscita, passi ore al ministero degli affari esteri, passando da un petit général a un grand géneral, di stanza in stanza, di piano in piano, come in un quadro di Escher. Ore per avere due timbri, e sentirsi porre per decine di volte le stesse domande. E alla fine notare che tu e la tua compagna di università, arrivate in Siria lo stesso identico giorno, con lo stesso volo, avete due visti di uscita diversi.

Poi, però, pensi che in fondo in Italia, non è così diverso a volta. Le dinamiche sono le stesse, solo, magari, più discrete, più politically correct.

La mia Siria è Dar ad-diyafa, oggi rasa al suolo, all’università di Aleppo, dove ho conosciuto amici meravigliosi, con i quali sono ancora in contatto, dal 2008.

La mia Siria è l’Alto Istituto di Lingue, dove ho veramente imparato l’arabo, arrivando con solo qualche nozione di grammatica, dal nostro libro universitario, che è un libro del 1932 e spiega l’arabo come fosse una lingua morta. Ma le professoresse non hanno perso la fiducia in me, e sono arrivata a un parlato e uno scritto che mi ha stupito.

La mia Siria è Seif ad-Dawla, quartiere di Aleppo, oggi distrutto dove facevamo maxi cene con gli amici sudanesi.

La mia Siria è senza dubbio il cibo: il foul di Jdeide (si fanno scommesse degne di man versus food, su quante ciotole si riescono a mangiare), i succhi di frutta naturali, essere invitati a pranzo dalla prof e avere davanti una distesa del migliore cibo siriano, è passeggiare per il suq di Aleppo e fare shopping mentre i negozianti ti offrono tazze di te, o meglio ancora zuhrat.

Poi c’è l’ospitalità. Così grande che all’inizio non la credevo vera. Pensavo ci fosse qualcosa sotto. Mi sbagliavo. In Siria puoi entrare in un khan per comprare stoffa ed essere invitato a cena col tuo gruppo di amici, con kebab e musica. Puoi partire con i tuoi amici per cinque giorni alla scoperta dei villaggi cristiani intorno a Damasco ed essere invitati a dormire in casa di una famiglia.

Linda durante una gita in Siria nel 2008

C’è la tensione degli estremi. Potevi essere arrestato perché viaggiavi con un camper con antenna satellitare.

Allo stesso tempo, pur essendo un paese a maggioranza musulmana, le festività cristiane erano rispettate. Così in primavera ogni tanto scoprivo che non ci sarebbe stata lezione, perché era Pasqua. Ma come, non era Pasqua il mese scorso? Quella era la Pasqua siriaca. Questa è la Pasqua cattolica. Poi ci sarà quella ortodossa.

C’era la possibilità di trasformare ogni occasione in una festa, in un momento di condivisione. Allo stesso tempo, c’era censura dell’informazione. Quando arrivai a febbraio 2008, una decina di giorni dopo il mio arrivo, mi chiamò mia madre preoccupata “tutto bene?” “sì, perché?” “c’è stata una bomba a Damasco!” prendo il telecomando della sala comune, passo in rassegna tutti i canali e nulla. Questa notizia non apparirà mai.

Verso fine aprile con i miei compagni di corso e gli amici sudanesi organizziamo una gita a Qala’at Al-Jabr di Assad. Gli amici sudanesi ci dicono che non sarebbero potuti venire, perché c’era una festività importante in quei giorni e non potevano mancare.

Non era vero. O meglio la festività c’era. Ma loro non potevano dire in pubblico che sarebbero venuti in gita con noi, invece di rimanere in casa. Gli studenti sudanesi non erano visti di buon occhio, e ogni tanto i loro movimenti finivano nell’occhio del mirino. La nostra gita insieme l’abbiamo fatta. Uno dei luoghi più magici mai visti.

Linda durante una gita con i suoi compagni di classe in Siria nel 2008

La mia Siria è il tempo scandito dal mu’ezzin e dalle preghiere. É il rispetto del tempo per pregare.

È anche vivere le giornate come una barzelletta. Come quando andammo a Deir iz-zor con due amici, una ragazza franco-algerina, aveva doppio passaporto, e un ragazzo americano, anche lui doppio passaporto, americano e saudita. Loro entrambi musulmani. Quando arriviamo in stazione, tutti vengono fatti scendere dal pullman, tranne noi tre. E così come una barzelletta “l’americano e la francese devono andare al comando di polizia”. “E l’italiana?” “Vieni anche tu, dai”. E così ci ritroviamo a chiacchierare con tre poliziotti divertiti dal fatto che fossimo un americano, una francese e un’italiana, ma tutti avessimo nomi arabi.

Per me la Siria è meravigliarmi. La meraviglia del deserto dispiegato sotto Deir Mar-Mousa, per assistere alla messa di Pasqua con Padre Paolo Dall’Oglio e poi partecipare alle danze e ai festeggiamenti della Pasqua e pensare, che è così che dovrebbe essere la Pasqua ovunque, che dalle nostre parti, non ci abbiamo capito granché, forse.

La Meraviglia di Qala’at Salah-ed-din, e di Qala’at al-Jabr, del gelido e cristallino lago di Assad.

La Siria ti entra nel cuore, e nella testa, per restarci, al punto che ogni immagine di guerra, ogni notizia di spari e bombe, arriva dritta al cuore e affonda gli artigli.

*Linda Covato ha generosamente donato questo suo ricordo a La mia Siria. L’articolo è pubblicato oggi 15 marzo 2021 a 10 anni dall’inizio della rivoluzione siriana. Onore alle vitttime vive o morte di questa immensa tragedia umana. Onore ad ogni lacrima versata per questo dolore senza fine. Onore e gratitudine all’umanità che resiste sempre e comunque.

Di conversioni e operazioni di salvataggio

 

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di Margherita Picchi *

Mi piace considerarmi una figlia dell’Illuminismo.

Ho ricevuto un’educazione laica, improntata a un’etica rigorosamente anticlericale, per non dire antireligiosa: quand’ero un’adolescente impegnata, mi definivo robespierrista. Non che l’universo religioso fosse assente dalla mia infanzia (tutt’altro), ma invece della Bibbia mi sono stati letti i miti greci, e non ho fatto catechismo né religione cattolica a scuola; fatto peraltro ben poco insolito nella mia città natale, Firenze, dove sono cresciuta a pane e blasfemia e all’ora di religione in classe restavano quattro gatti.

Avevo 16 anni l’11 settembre 2001, quando le Torri Gemelle sono crollate nell’attentato terroristico più famoso della storia contemporanea (dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, forse). Dieci anni dopo mi laureavo all’Orientale di Napoli con una tesi specialistica sul pensiero di Sayyid Qutb, il maggiore ideologo dell’islamismo radicale contemporaneo. Avevo deciso di specializzarmi in storia dell’Islam politico perché volevo capire chi erano, questi Altri che secondo i media ci odiavano, e avevo capito presto che la storia era ben più complessa di così. Avevo capito che terrorismo ‘jihadista’ e Islam politico sono due cose diverse, che il primo è la degenerazione del secondo un po’ come il terrorismo rosso è stato la degenerazione del pensiero di Marx e il Terrore francese del robespierrismo; e avevo capito che il jihadismo è un fenomeno che si spiega molto meglio leggendo il contesto storico politico dell’800-‘900 piuttosto che le parole del Corano (questa storia l’ho raccontata altrove): quello che mi preme qui raccontare è che questa maggiore comprensione non aveva intaccato di un millimetro la mia convinzione che l’Islam fosse una religione irrimediabilmente maschilista.

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Margherita al GayPride 2010 (Napoli) Foto di Emma di Taranto

Non che avessi un’opinione migliore del Cristianesimo, dell’Ebraismo, o delle religioni in generale. L’unica scelta ‘giusta’ per le donne mi pareva quella del laicismo. Il semplice fatto che i paesi del mondo che hanno il risultato migliore nel gender gap index siano anche quelli che hanno la percentuale più alta di ateismo mi pareva una solida base per concludere che la strada dell’emancipazione femminile dovesse necessariamente passare dall’abbandono della religione, e che le donne non religiose fossero più emancipate di quelle che si identificano come tali. Era un ‘dogma’ che non avevo mai messo in discussione.

Cosicché, quando l’amica più cara che ho conosciuto all’università mi ha annunciato di essersi convertita all’Islam, la mia reazione è stata di shock.

Non capivo. Com’era possibile? Conoscevo Rosanna come una ragazza brillante, certo un po’ tormentata, ma lucida e aperta di mente. Eravamo andate a un gay pride insieme. Ammiravo il grande coraggio con cui aveva scelto di imbracciare uno stile di vita e un pensiero laico, allontanandosi dalla religiosità molto rigida cui l’avevano educata i suoi genitori, testimoni di Geova. In questo senso, la sua era stata una ‘scelta’ molto più della mia, che alla laicità ci sono stata cresciuta. Non capivo come potesse essere ‘tornata indietro’, tanto più per imbracciare l’Islam. Ma l’aveva letto il Corano, i versetti che attribuiscono ai mariti un ‘grado di privilegio’rispetto alle loro mogli, e il diritto di disciplinare con la forza le consorti disobbedienti?

Ero turbata, arrabbiata. Ci ho dormito male diverse notti. E alla fine ho concluso che qualcuno le aveva fatto il lavaggio del cervello e che era mio dovere di amica andare a salvarla.

Rosanna si era infatti convertita in Siria, dove avevamo pianificato di andare entrambe a studiare l’arabo – prima della guerra Damasco era una meta privilegiata per gli studenti di arabo di tutto il mondo. Lei era partita qualche mese prima di me, io l’avrei raggiunta a dicembre 2010; ed è proprio qualche settimana prima del mio arrivo che lei ha deciso di raccontarmi la sua decisione di convertirsi, perché non lo scoprissi all’arrivo.

Scelta saggia, di cui la ringrazio – almeno ho avuto modo di abituarmi all’idea.

Riflettendo sulla notizia, ho concluso che un mutamento così repentino non poteva spiegarsi che con una sorta di lavaggio del cervello (mi aveva detto che non c’entrava un uomo, ma non ci avevo creduto subito), e mi sono armata di argomenti razionali per decostruirlo. Ho comprato una copia di L’illusione di Dio di Richard Dawkins, l’ho infilata in valigia e mi sono ripromessa di regalargliela appena arrivata – così, tanto per cominciare la conversazione.

Poi sono atterrata all’aeroporto di Damasco, e finalmente l’ho vista.

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Margherita e Rosanna in un ristorante a Damasco poco prima di rientrare in Italia

Lo ricordo molto bene, ed è buffo, perché non ho alcuna memoria di quando io e lei ci siamo conosciute, ma ricordo come fosse ieri quando l’ho vista per la prima volta come Maryam. Ho pensato che il “cencio in capo” non le stava poi male, e sono rimasta spiazzata da quanto era raggiante il suo sorriso. Somigliava un po’ a quello con cui è stata fotografata al suo arrivo Silvia Romano: anche se la storia di queste due donne è molto diversa, la luminosità che ho visto era la stessa. Era come se nel mettersi un velo se ne fosse tolta un altro; come se si fosse sollevata un’ombra (ho scritto che era ‘un po’ tormentata, ricordate?), che non ho visto tornare mai più.

Il libro gliel’ho dato e lei l’ha accettato con molto garbo, ma mi sono sentita una stupida all’istante. Il sermone laicista che mi ero preparata è risultato goffo e inadeguato pure a me, e l’ho tagliato corto molto presto. Era chiaro che fosse felice, più felice di prima, e che diamine di senso poteva avere ‘salvare’ la mia amica da qualcosa che l’aveva resa felice?

Ho ritenuto più intelligente chiudere la bocca e aprire gli occhi e le orecchie. E’ stata un’esperienza istruttiva, che ha avuto un ruolo determinante nel farmi poi scegliere di specializzarmi nello studio del femminismo islamico, e sostenere il lavoro delle donne che quei famosi versetti scelgono di contestualizzarli, invece di usarli come scusa per oscurare il profondo egualitarismo del messaggio coranico.

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Margherita a Damasco fotografata da Rosanna

Più di ogni altra cosa, forse, è stata l’accoglienza che ha ricevuto Rosanna al suo ritorno a motivarmi. Anche lei si è infatti presa la sua dose del fango che si riversa in modo inevitabile su ogni donna che scelga di convertirsi all’Islam (e che di solito risparmia gli uomini che fanno lo stesso, chissà perché). Ho sentito cattiverie sul suo conto che mi vergognerei a riportare: ed eravamo all’università di Napoli ‘l’Orientale’, fra studenti di arabo e studi islamici, non nella sede della Lega di Predappio. Come se la sua scelta costituisse qualche sorta di tradimento culturale imperdonabile, anche fra gente ‘acculturata’, di sinistra, antirazzista.

Ed ecco che Silvia Romano torna a casa, e succede di nuovo, su scala ovviamente molto maggiore. Il suo velo fa più notizia della sua liberazione, quotidiani nazionali sbattono ‘l’ingrata’ in prima pagina, l’accusano di essere tornata ‘con la divisa del nemico’, accostano la foto del suo ritorno a vecchie immagini in minigonna titolandole ‘liberata?’. Se da sinistra la si difende comunque si tentenna, e le diagnosi improvvisate di ‘sindrome di Stoccolma’ passano di bocca in bocca, di post in post.

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Margherita nella moschea di Sayyda Ruqqaya fotografata da Rosanna, che quel giorno le prestò il velo

In fondo lo capisco. Ci sono passata. Se assumiamo come dogma che la condizione di ‘laicità’ sia quella che concede maggiori libertà a una donna, che tutte le religioni siano patriarcali e l’Islam la più patriarcale di tutte, quella di passare da ‘laica’ a ‘religiosa’, tanto più ‘musulmana’, non può che apparire come una scelta ‘folle’. E per spiegare una scelta che ci appare ‘folle’, il ‘lavaggio del cervello’ offre una spiegazione comoda: e se è comoda sempre, figurarsi dopo 18 mesi di prigionia.

Ma i percorsi di crescita e di liberazione – personali come collettivi – non sono tutti uguali, e dovremmo liberarci noi di questa arroganza tutta occidentale di ritenere il nostro sistema socio-culturale l’unico che sia davvero umano.

Guardatela meglio. Guardate come sorride, perché è l’unica cosa che possiamo fare. Non potete sapere cosa sia a rendere così luminoso quel sorriso, ma potete essere felici per lei, risparmiarvi i giudizi, e lasciarla stare. Se non capite, tacete e ascoltate, che se vorrà ce la racconterà lei la sua storia, quando vorrà. E se deciderà di tacere, potete ascoltare le storie di tante altre donne musulmane, che hanno tanto da dire e nessun bisogno di essere salvate.

 

* MARGHERITA PICCHI ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle donne e delle identità di genere presso l’Università Orientale di Napoli nel 2016, dove già aveva ottenuto nel 2011 la laurea specialistica in Scienze delle lingue, storia e cultura del Mediterraneo e dei paesi islamici. I suoi interessi di ricerca includono gli studi coranici e il pensiero  islamico contemporaneo, oltre che gli studi di genere e queer in contesti musulmani. Dal 2018 è assegnista di ricerca presso la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, dove conduce una ricerca sulla teologia islamica della liberazione in Sudafrica.

L’Islam: oggi come nove anni fa

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Moschea degli Omayyadi, Damasco 2010. Foto di Rosanna Sirignano

Le ore di luce lentamente facevano spazio a quelle di buio, l’aria era diventata più fresca e respirabile quel pomeriggio a Damasco. Acquistai un foulard di cotone nero da uno dei piccoli negozi del suq e mi diressi verso l’autobus. Per una strana coincidenza c’erano solo donne, tutte visibilmente musulmane. Persa nei pensieri che vagavano da un luogo all’altro della mente senza una precisa meta, mi ritrovai sola al capolinea dell’autobus, senza accorgermi di aver attraversato tutta la città. “Fine della corsa, scendere!” – e il conducente si voltò verso di me e sorridendo chiese: “Ajnabiye” “Straniera?”- “Sì, mi sono persa”. Chiamai Nura, che mi aspettava a casa sua per un tè da almeno un’ora e le spiegai la situazione. L’autobus successivo sarebbe partito dopo almeno mezz’ora e io mi trovavo in una zona lontana da casa sua. Le chiesi scusa, promettendole che le avrei fatto visita presto. A quel punto il conducente mi fece segno di passargli il telefono. Scambiò due chiacchiere con la mia amica, poi riattaccò e mi disse di stare tranquilla. Nonostante avesse terminato la sua giornata di lavoro, l’uomo tornò indietro e mi condusse in un punto della città dove mi stava aspettando Nura. Lo ringraziai immensamente e oggi gli sono ancora più grata per aver partecipato ad uno dei giorni più importanti della mia vita. Quel giorno a casa di Nura imparai i movimenti della preghiera islamica, imparai una pratica che la sera stessa divenne il mio linguaggio spirituale per i 9 anni successivi: l’Islam. Tornata a casa nel buio e il vuoto della mia camera siriana stesi a terra il tappeto leggero che mi aveva donato Nura, avvolsi la testa con il foulard nero comprato poche ore prima e cercai di ripetere la sequenza dei movimenti. Ne ricordavo bene solo uno: il sujud, la posizione in cui ci si piega con la fronte al pavimento e si diventa una piccola parte dell’immenso universo. Così, spontaneamente la shahada* attraversò la mia mente e uscì dalle mie labbra come un soffio. Il corpo rimase rigido e gli occhi faticarono a chiudersi per tutta la notte. Al mattino lavai via la pesantezza e il superfluo con acqua calda e mi preparai ad una nuova e faticosa ricerca. Giorno dopo giorno apprezzavo il silenzio e la pace delle prime ore dell’alba, lasciavo che i suoni del Corano vibrassero dentro di me per guarirmi fino al tramonto. I movimenti e le parole della preghiera diventavano sempre più naturali e fluidi e così cambiava il mio corpo, e con esso la mia mente e il mio spirito. Ai miei occhi di giovane viandante, le strade, le moschee, le chiese, i palazzi, le piazze, i bar di Damasco pregavano e glorificavano l’Universo, con gratitudine e gioia. Oggi celebro questo giorno, per ricordare che l’Islam è essenzialmente un modo di prendersi cura di se stessi e di connettersi con il divino. Il suo fulcro è la preghiera, in arabo salat, da compiere cinque volte al giorno, in armonia con la natura. Spesso noi musulmani ce ne dimentichiamo, la compiamo meccanicamente e frettolosamente, o ce ne allontaniamo. Oggi il ricordo del 12 novembre 2010 si trasforma in un augurio ai musulmani e alle musulmane di riscoprire il valore e la bellezza della tradizione spirituale che ci è stata trasmessa. Inoltre, al di là della fede e delle religione, auguro a tutti di trovare spazio ed energia per gustare ogni giorno della bellezza e del piacere di un momento di riconciliazione con noi stessi, la natura e il divino.

 

* Attestazione di fede in un unico Dio e nel suo Profeta Muhammad. È il primo pilastro dell’Islam.

Madre Siria, eri bella

Souad Mardam Bey
Dipinto dell’artista siriana Souad Mardam Bey

Petruro Irpino (Avellino). E’ una giornata molto calda, la spaziosa piazza bianca riflette i raggi del sole, tanto da costringermi a coprirmi gli occhi con una mano e a cercare un posto all’ombra. Da qualche tempo Petruro Irpino ospita famiglie di rifugiati tra cui siriani, che hanno cambiato la vita del paese e destato la curiosità di molti. Una signora mi saluta e mi dice: “Mi dispiace per quello che sta succedendo fra Siria e Turchia, anche se francamente ne so molto poco, quindi non saprei da che parte stare.” Filomena* sembra provare imbarazzo nel pronunciare quelle parole e io la rassicuro dicendole che nonostante gli anni di studio, anche io faccio fatica a comprendere fino in fondo la complessità di un conflitto che si perpetua ormai da 9 anni e che ha una storia ben più lunga alle spalle. Cerco di dare qualche spiegazione in più, pur consapevole che è limitata, insufficiente, parziale. Filomena ascolta con attenzione, visibilmente interessata a comprendere meglio il mondo da cui vengono i suoi vicini siriani, con cui ancora ha difficoltà a comunicare a causa della lingua. Lei forse non lo sa, ma in quel momento sta compiendo un atto rivoluzionario dal valore umano inestimabile.

La domanda è sempre la stessa: “Da che parte stare?” Non è facile rispondere: ogni affermazione sembra sbagliata, arrogante e ingiusta, imprigionata nella paura costante che possa essere usata per diffamarti, che possa danneggiare l’immagine dei siriani, che possa ferire o indignare qualcuno. Parole come “dalla parte dei civili”, “pace”, “umanità” sembrano banali e prive di senso. Succede soprattutto ai figli della Siria, quelli che ci sono nati, che lì sono andati a scuola, hanno lavorato, si sono sposati, hanno bevuto fiumi di tè e guardato infinite serie televisive sgranocchiando biscotti e noccioline. Succede a quelli che sono stati cresciuti da genitori siriani, quelli che ci trascorrevano le vacanze estive, quelli che non hanno mai potuto vedere la Siria, ma a cui i genitori hanno trasmesso la lingua e la cultura siriana. Succede a quelli  che hanno trascorso anni di studio e di lavoro lì, succede a quelli che hanno la Siria dentro per un motivo ignoto. La Siria è una madre generosa e accogliente che non fa differenza fra figli naturali e figli adottivi. Non è morta, quindi il dolore che si prova nel vederla torturata, distrutta, agonizzante non è assimilabile al lutto. E’ diverso, ti spezza in due, ti fa sgorgare lacrime pesanti e amare, che non sapevi fossero albergate in un luogo oscuro del tuo essere. Ti fa vivere un senso di inquietudine costante che a volte riesci ad arginare dimenticandola, ignorandola, ma tanto lei torna, perchè è così, una madre non puoi mai eliminarla dalla tua vita. Le parole dei figlie e delle figlie della Siria sono sempre intrise di emozioni contrastanti e così diventa faticoso esprimersi sulla situazione politica del paese, spiegarne l’intricata storia, far luce sulle diverse componenti della sua società. Le parole dei figli e figlie della Siria a volte sono ascoltate con sospetto, come se il coinvolgimento emotivo impedisse un’ analisi lucida e razionale. Per fortuna non la pensa così Filomena e chi, come lei, è ancora aperto al dialogo e all’ascolto autentico in un mondo dove comunicare pacificamente risulta a volte impossibile.

Ad ogni modo ci sono giorni in cui si ha la sensazione di essersi abituati a tutto questo, ma poi arriva qualcuno che ti chiede “com’era la Siria?” – “Kif kanat Surya?” e tu sei costretto a rispondere “Kanat helwe” – “era bella”. In queste due parole era/kanat si nascondono tutte le lacrime siriane, che io oggi ergo a bandiera dell’umanità che resiste e rivendico il pianto come atto politico consapevole, di chi sa bene da che parte stare.

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Dipinto dell’artista siriana Souad Mardam Bey

*Nome di fantasia.

Dov’è la tua casa, Nouruz?*

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“La mia casa è tra gli ulivi. Avevamo un grande giardino. C’erano sette grandi alberi di ulivo.

Ero un bambino, avevo 6 o 7 anni. E talvolta raccoglievo le olive con le mie piccole mani.

Quando avevo 13 anni, mi sedevo spesso tra gli ulivi e pensavo. Per esempio mi chiedevo: dove è Dio, perché non lo vedo? O perché non sono in grado di parlare con gli uccelli?

Direi che quel luogo, tra gli ulivi, è l’unica casa che ho conosciuto fino ad ora.
Ho ricordi molto intensi della mia infanzia trascorsa tra questi alberi. Penso che i miei genitori attraverso l’uliveto hanno educato il mio cuore. Li penso, mentre si prendevano cura di quegli alberi

Ora capisco che nella natura si ritrova quanto di più pacifico il mondo possa offrire “.

 

Nouruz da Qamişlo, Rojava (Kurdistan siriano), studia Etnologia e Storia in Germania, dove è arrivato nel 2013.

 

*Tradotto e adattato dal tedesco:

https://insani2017.wordpress.com/2017/09/23/wo-hast-fuehlst-du-dich-am-meisten-zuhause-nouruz/

 

Buon compleanno Razan

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“Razan si è rifiutata di fuggire. Per lei era importantissimo che la storia registrasse la verità della rivoluzione, e per questo doveva rimanere in Siria. Ciò a cui ha aderito è la libertà – libertà dall’oppressione e libertà dalla paura.” così Rana, sorella di Razan Zaitouneh, di cui oggi 29 aprile, celebriamo il compleanno. Il 9 dicembre 2013 insieme al marito Wael Hammadeh, Samira Khalil e Nazem Hammadi è stata sequestrata da gruppi jihadisti a Ghuta, nella periferia di Damasco. * E Ghuta ritorna nei racconti di Yunis, un farmacista di Damasco, che incontro insieme all’amico Yassin, commerciante di Aleppo, in un caffè in una piccola città a nord della Germania. Yunis ha lavorato per tre anni nel Free Syrian Army come assistente medico, pur non avendo alcuna competenza. Nell’agosto del 2013 aveva prestato soccorso alle persone ferite durante l’attacco chimico di Ghuta e sui responsabili della tragedia non ha dubbi: il regime di Bashar e i suoi alleati. Prova rabbia, perchè ha sentito dire che ci sono persone in Europa che vogliono far credere che l’attacco non abbia mai avuto luogo. “Io le facce di tutte quelle persone morte atrocemente le ricordo una per una.” Mi racconta di aver imparato ad effettuare diverse operazioni chirurgiche in pochissimo tempo, con qualsiasi strumento a disposizione, spesso avendo a disposizione solo la luce dello smartphone. Ma tentare di salvare delle vite umane in Siria è un crimine: due volte, per un periodo di tempo che non ricorda esattamente, forse due o tre mesi, Yunis è stato rinchiuso nelle prigioni di Mezzeh, in una cella con un altro centinaio di persone, dove riuscivano solo abbassarsi ed alzarsi per consentire al corpo di fare un po’ di movimento. A questo punto mi ricordo di Razan e del suo compleanno: ” questo mi insegnate voi oggi, gli dico, il coraggio di lottare per la libertà”. Gli occhi di Yunis e dell’amico Yassin si inumidiscono, entrambi annuiscono e uno di loro dice: “Ora però è finita. Abbiamo perso. La rivoluzione non c’è più.” Si cambia argomento, abbiamo bisogno di prendere una pausa dal dolore, così gli racconto della mia Siria, di come sono diventata musulmana, di quanto era bella e generosa la gente di Damasco. Mi confessano che tornerebbero in Siria il prima possibile se potessero. Yassin lì aveva un negozio di abbigliamento e “qui in Germania – dice ridendo – faccio più o meno lo stesso lavoro. Sono volontario presso la Croce Rossa, dove seleziono vestiario da donare ai rifugiati.” Facciamo una breve passeggiata e al momento del congedo Yunis mi dice: “da oggi hai due nuovi familiari, due fratelli, quindi qualsiasi cosa chiamaci, ahlan wa sahlan”. Ecco, oltre al coraggio la Siria oggi mi ricorda l’umanità, mi conferma, che nonostante tutto, questo mondo ha ancora tanta bellezza da offrire.

*https://it.gariwo.net/giusti/coraggio-civile/un-altro-anno-senza-razan-zaitouneh-15003.html

La pace dei bimbi

la pace dei bimbi

West Bank, ottobre 2015. Ci eravamo riuniti tutti in una camera da letto quella sera: Io, Nura, le sue due splendide figlie di 12 e 13 anni, il piccolo Ali, nato da poco meno di un mese e Mustafa, di solo 9 anni. I soldati israeliani avevano circondato la zona e si temeva potessero entrare nelle case da un momento all´altro. Mustafa si accorse che stavo tremando dalla paura e mi chiese:

“Hai paura Maryam?”

“Sì un po’” risposi.

“E di cosa? Dei soldati?”

“Sì”

“Non ti preoccupare! Non verranno!”

“Inshallah” e continuavo a lottare contro la mia agitazione.

“Non avrai mica paura di morire?” – chiese Mustafa.

“Sì piccolo, ho paura.”

“Io no. Io non ho paura di morire.”

“Davvero?”

“Sì. Non dovresti aver paura neanche tu perchè ad ogni modo non sarai tu a decidere. Tu non puoi farci nulla. Se Dio ha deciso che stanotte morirai sarà così.”

E così Mustafa mi insegnò a credere nel Destino e a non temere la morte. Non so se sono riuscita ad imparare, so però di quanti bambini straordinari ho incontrato laggiù in Palestina. Per questo motivo sostengo il progetto ideato da Antonietta Chiodo “La pace dei bimbi”, un libro scritto interamente dai bambini palestinesi, per raccogliere la loro genuinità e ingegnosità, per dare voce ai loro sogni e speranze.

Per maggiori informazioni vedi qui: https://www.eppela.com/it/projects/12308-la-pace-dei-bimbi

 

Il telaio di Penelope (2) – Le donne

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2014/01/25/il-telaio-di-penelope/

25 gennaio 2014. Mi sono spessa domandata, in questi anni, cosa fosse successo e perché, ma ancora non riesco a trovare risposta. Abitavo con una ragazza musulmana di origini marocchine, Aisha*, che puntualmente si svegliava all’alba per pregare e per leggere il Corano. Parlavamo molto dell’ Unico Dio in cui lei credeva e inspiegabilmente io sentivo che lei aveva qualcosa che io avevo perso e che dovevo riconquistare. Ogni volta che la vedevo pregare o adempiere un qualsiasi atto religioso sentivo uno strano senso di colpa, come se anche a me fosse richiesta quella stessa devozione a Dio. Iniziai senza motivo a comportarmi diversamente, a vestirmi in modo diverso, a pensare in modo diverso. Inoltre avevo stretto amicizia con delle splendide ragazze che condividevano la stessa fede di Aisha, sempre pronte a rispondere alle mie domande.

Un pomeriggio, era giovedì, accompagnai una delle mie amiche, Khadija, ad una delle tante bellissime moschee di Damasco. Ad un certo punto, ecco la voce del muezzin che richiamava alla preghiera del pomeriggio. Durante la preghiera restai seduta in fondo alla sala stringendomi il più possibile in un angolo, nella speranza di non essere notata. Provai un certo senso di nervosismo a non poter pregare, e intanto mi domandavo se stessi diventando pazza o cose del genere.

Quello era il modo migliore per avvicinarsi a Dio e il modo migliore di pregare, non c’era alcun dubbio, era quello che stavo cercando, era il motivo del mio viaggio! I fedeli pregavano con la mente, con il corpo e con il cuore, devoti con tutta la propria umanità al nostro Creatore.Khadija era molto stanca quel giorno e dopo la preghiera mi chiese di andare a casa, ma io volevo restare, non sarei voluta più uscire da quel posto. Si fece buio e dopo la preghiera del tramonto giunse davvero il momento di andare. I miei occhi brillavano dello stesso luccichio dei lampadari della moschea e ancora oggi quella luce continua a splendere.

I giorni successivi furono un susseguirsi di emozioni che non riuscirei a spiegare a parole. Mi sentivo molto confusa, avevo paura, piangevo senza motivo e a volte non riposavo tranquillamente. Mi rivolgevo spesso a Dio, chiedendogli di aiutarmi a trovare la strada e a capire cosa mi stesse succedendo. Chiesi soccorso ad altre due donne: Nadia e Nura. Chiesi loro: “come faccio a sapere che l’Islam è la vera religione e come faccio a sapere che è la mia strada?” Quello che avrei voluto era un manuale di istruzioni o semplicemente una frase del tipo: “E’ questa la tua strada, e ovvio, come fai ad avere dubbi?” e invece la risposta fu : “Noi non lo sappiamo, prega e Dio ti indicherà la via”. Ed era questo il senso di tutto: ritrovare la fede, confidare nell’Unico Dio, abbandonarmi al mio Creatore e lasciarmi guidare da Lui. E così fu. Una sera Nura mi insegnò i movimenti della preghiera islamica. Quando le chiesi quali procedure avrei dovuto seguire per diventare musulmana mi disse: “ma nulla, se hai fede, se credi in Dio e il suo Profeta sei musulmana.” Anche la mia amica Nadia confermò. “Bè allora, dissi io, se è così, facile! Sono musulmana perché credo in Dio e il suo Profeta”. Le ragazze mi abbracciarono congratulandosi e augurandosi il meglio per me. Io nella mia mente pensavo: “Calma, calma ragazze non ho detto di aver deciso… aspettate..”. Era venerdì 12 novembre 2010, 5 Dhul-Hijja 1431, mancavano quattro giorni alla festa del Sacrificio. Al momento di salutarci, Nura mi regalò un tappeto, semmai avessi voluto provare a pregare. Mi rassicurò dicendo che poco alla volta le cinque preghiere e anche tutto il resto sarebbe diventato parte della mia quotidianità . Tornata a casa stesi il mio tappeto e provai a pregare, sicuramente confondendo i movimenti che avrei imparato poco alla volta nelle settimane successive. Non chiusi occhio quella notte, aspettando con ansia la mattina dopo quando avrei dato la bella notizia ad Aisha.

Ulisse apparteneva ormai al mio passato, che non ho dimenticato, ma da cui ho tratto preziosi insegnamenti. Non ho mai rimpianto il momento in cui decisi di distruggere il telaio, ora so che era per volere di Allah che mi trovassi nel posto giusto al momento giusto per ritornare all’Islam.

*tutti in nomi sono stati cambiati.

E così mi liberai dal velo… (seconda parte)

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2017/02/21/e-cosi-mi-liberai-dal-velo-prima-parte/

E così mi guardai allo specchio e finalmente quello che vidi fu esattamente il mio riflesso: stesi delicatamente una crema colorata sul viso, accarezzandomi come avrei desiderato facessero gli uomini della mia terra, che troppo spesso dimenticavano che ero pur sempre una Rosa. Contornai i miei grandi occhi che spesso avevano trattenuto un fiume di lacrime dense di fronte all’ingiustizia, con una riga blu notte. Impreziosii le mie ciglia di un liquido nero, fino a farle diventare così lunghe da toccare il cielo, quello che avevo guardato tante volte nella speranza di andare via lontano. Salutai mio nonno, e in cuor mio sapevo che sarebbe stata l’ultima volta; con  un misto di gioia, dolore, rabbia ed eccitazione, mi apprestavo a mostrarmi con tutto il mio splendore quel giorno. Per una volta avrei indossato gli abiti che la mia famiglia mi aveva cucito addosso, avrei recitato la parte che il mio pubblico si aspettava, tutto ad una condizione: che il mio velo restasse saldo sulla mia testa. Il mio velo che quel giorno diceva: “ti amo tanto terra mia, famiglia mia, ma non sono esattamente come te e non lo sarò mai”. Così mi apprestavo dopo tanto tempo ad accogliere tra le mie braccia tutti gli uomini presenti in sala, a cimentarmi in un elegante danza con alcuni di loro. Da quel giorno non mi sarei più guardata allo specchio con gli occhi degli altri. Avevo riscoperto la mia Bellezza ed ero pronta a lasciarla libera. Da quel momento il velo, che ostinatamente ogni giorno avvolgevo attorno al mio viso, avrebbe significato una sola ed unica cosa: Bellezza. E parte della mia Bellezza la devo all’Islam, che mi ha aperto la strada per sanare le mie ferite, per riscoprire la mia spiritualità perduta, per riconnettermi all’universo. Quella Bellezza che ho scoperto in Siria, attraverso luoghi, persone, odori; guidata dal vento che attraversava i miei capelli nero corvino, che ho deciso di custodire in veli dai mille colori.

E così mi liberai dal velo… (prima parte)

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Heidelberg, maggio 2014. Era ormai trascorso quasi un anno da quando, per inseguire la mia passione, nella speranza di trovare condizioni migliori e di costruire qualcosa di importante, solido e duraturo, avevo lasciato il mio amato Sud. In Germania era piuttosto semplice circondarsi di musulmani, che soprattutto a Mannheim, dove vivevo, erano ovunque. Frequentavo un paio di moschee, dove avevo la possibilità di parlare l’ arabo e di migliorare la pratica religiosa. Qui il mio velo passava piuttosto inosservato e non avevo quasi mai la necessità di spiegare agli uomini che non dovevano stringermi la mano. Mantenevo una certa distanza anche con il mio capo, che un giorno, con mia grande sorpresa, mi consigliò di “smetterla di recitare la parte”. Non capii bene a cosa alludeva, fu lei a spiegarmelo, il mio raggio di sole nelle grigie giornate di Heidelberg…

Palermo, giugno 2015. Lascio che sia lei a raccontare: “Rosanna è stata la prima ragazza italiana che ho conosciuto ad Heidelberg, poco più di un anno fa. Ci siamo ritrovate in una mailing list comune dell’Università e vedendo il suo nome italiano le ho scritto una mail per invitarla per un caffè. Quando ci siamo incontrate non nascondo lo stupore che ho provato nel trovarmi davanti ad una ragazza che, con il suo marcato accento campano e uno splendido sorriso, portava il velo, il suo hijab, come ho imparato poi. Quel giorno il caffè, si è trasformato in una chiacchierata di quasi 4 ore. Siamo diventate amiche. Da Rosanna ho imparato e sto imparando tanto. Rosanna, cresciuta in una famiglia cristiana, ha scelto di convertirsi. Ha scelto di conoscere e di conoscersi in profondità e seguire quello che il cuore le suggeriva. La sua è stata una scelta coraggiosa che ha portato avanti con gioia e umiltà. E amore. Da Rosanna ho imparato e sto imparando ad accogliere l’Altro… e l’Altro si può accogliere solo se si accetta di mettere per una attimo da parte le proprie “certezze”. Se si impara ad ascoltare, conoscere e rispettare con il cuore e senza quei pregiudizi che tutti fingiamo (o crediamo) di non avere.”

Lei vedeva in me quello che io avevo dimenticato, sepolto, soffocato. Anche io ho imparato tanto dalla nostra amicizia. Lei ancora non lo sa, ma fu un suo piccolo regalo, una trousse a forma di bambolina giapponese a liberarmi …

Alla prossima puntata!

Maria Rita & Rosanna