Per Israa e per tutte le donne palestinesi

Cara Israa,

Ho letto di te in inglese, in arabo e in italiano: dicono che una foto su Instagram ha scatenato l’ira di tuo padre e tuo fratello. Dicono che una tua parente donna è stata loro complice. Dicono che la loro rabbia li ha accecati a tal punto, che ti hanno brutalmente picchiata anche in ospedale. Dicono che medici e infermieri sono rimasti lì a guardare, forse per paura, forse perché in fondo pensavano che fosse una punizione meritata. Non si sa ancora con certezza che cosa sia successo, non è importante, forse. Difficile parlare di te qui in Italia: la tua storia rischia di alimentare i pregiudizi sul mondo arabo-islamico, di aumentare la diffidenza di chi rifiuta la complessità del mondo.

Ho visitato la tua terra nel 2015, ci sono rimasta circa due mesi. Da allora il mio sguardo sul mondo è cambiato, il mio cuore è stato solcato da una nuova ferita e si è aperto ad un senso di gratitudine immenso per le gioie che mi sono concesse. Di quel viaggio non parlo quasi mai, contatto poco le persone che allora, con grande generosità, mi hanno accolto nelle loro vite. Loro, le donne, sono sempre nei miei pensieri: erano bambine, giovani, anziane, erano sorridenti, tenaci, stanche, generose, sagge.

“Quando torni in Italia, cara Maryam, spiega per favore che non è solo la difficile situazione politica ed economica ad opprimerci, ma la stessa nostra società, con la sua mentalità patriarcale” mi disse una donna durante una visita per un nuovo nascituro di una delle mie due famiglie adottive. Da allora, non avevo tirato fuori questo episodio, se non in qualche conversazione privata con amici, oggi sento il dovere di scriverlo, per mantenere la parola data. Una parte di me non voleva accettare che la Palestina, la mia amata Palestina fosse anche questo. “La nostra vita è orribile, Maryam, io oggi ho avuto la possibilità di uscire solo per l’occasione della nascita del bambino, altrimenti con la scusa che le strade sono pericolose, i nostri mariti non ci consentono di uscire liberamente. Scrivilo, per favore quando torni in Europa,”  continuò questa donna di cui a malapena ricordo il volto. Come un ferro rovente le sue parole attraversavano le mie carni, una parte di me rifiutava la dura realtà che anche io avevo osservato in alcune famiglie. Alla nostra conversazione parteciparono anche altre donne, che mi fornirono esempi per provare che il loro disagio e il loro dolore era reale. Mi spiegarono anche che non tutte le donne erano costrette dalla volontà arbitraria dei familiari maschi, anch’essi vittime di una società che assegna ruoli prestabiliti in base al genere. “Tu hai la libertà, Maryam, non sprecarla, tu puoi scegliere di essere felice, quindi fallo.” Da allora la mia vita non è stata più la stessa, da allora ho sempre scelto libera dai condizionamenti che la mia società, la mia famiglia, la mia comunità religiosa mi impongono. Da allora la mia libertà e la mia felicità hanno un valore pregnante per la mia vita quotidiana. Non c’è scelta o azione che compio senza pensare prima a questi principi, delimitati dal buon senso e dal profondo significato dell’Islam, che da allora è diventato per me un soffio di libertà. Tutto, il matrimonio, lo studio, il lavoro, la religione, per quanto è possibile non devono essere una prigione per noi, ma un modo per esprimerci e vivere la nostra vita con gioia. Grazie a questo importante insegnamento, tornata in Europa, ho compiuto delle scelte che da tanti, anche membri della famiglia, non sono state comprese. Ho tagliato i ponti con gli uomini che in quel momento tentavano di esercitare potere su di me, che non mi rispettavano adeguatamente, che non lasciavano al mio soffio di libertà di scorrere. Coraggiosa? No, perché a parte qualche lacrima, senso di solitudine, giudizio degli altri, non c’è stata alcuna conseguenza. Come te, anche qui purtroppo ci sono donne costrette a raccontare bugie, a nascondersi, a restare immobili e nascoste, che ogni giorno muoiono per aver osato dire “no”. Ecco quelle sono delle sante, degli eroi, io e la maggior parte delle mie concittadine europee no.


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Bet Sahur 2015, foto di Maryam Rosanna Sirignano

Una volta sono stata nella tua piccola Bet Sahur, ho respirato aria pura dalle colline che costeggiato il tuo piccolo paese. Chissà quante volte avrai trascorso del tempo lì a guardare l’orizzonte, a sognare di andar via con il tuo principe azzurro o forse da sola a studiare in Europa, per diventare una famosa make-up artist. Chissà quante lacrime avrai versato tra le tue ginocchia, le uniche pronte ad accogliere la tua testa quando sentivi che era veramente troppo. Hai mai visitato Gerusalemme?  Io sì, è un luogo meraviglioso, difficile da descrivere, un pezzo di paradiso in terra, che splende nonostante tutto. Sai perché ho visitato la tua terra? Perché sono una studiosa, mi occupo della Palestina raccontata dall’ antropologa scandinava Hilma Granqvist, che negli anni ’30 descrisse la vita delle donne di un villaggio vicino al tuo. Quindi, sono anni che  studio lo sviluppo di tradizioni, superstizioni, usi e costumi costruiti nel passato per ordinare e controllare una piccola società rurale, in lotta per la sopravvivenza. Insomma, so molto bene da dove vengono le giustificazioni che forse la tua famiglia avrà trovato per commettere un atto tanto crudele e tanto ingiusto.

Prego per loro Israa, perché a te il Paradiso è già garantito. Prego affinché la malattia che li affligge possa abbandonarli, per restituir loro l’umanità e il senso profondo dell’Islam, che è soprattutto raḥma, misericordia, compassione. Prego affinché il tuo martirio possa far germogliare un seme di consapevolezza nei cuori di donne e uomini palestinesi. Prego affinché il tuo urlo straziante possa far svegliare la coscienza di uomini e donne ovunque essi siano. Prego affinché non siano più necessari sacrifici come il tuo.

Con amore e gratitudine,

tua sorella Maryam

Bari Porta del Mediterraneo con Aeham Ahmad e Radiodervish

Bari 15 dicembre 2017

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È passato circa un anno dal suo concerto ad Heidelberg (vedi qui: http://cometarossa.org/2016/12/aeham-ahmad/) quando scopro con piacere che suonerà con una delle mie band preferite, i Radiodervish, in occasione della terza edizione del Festival Centro del Mundo.

Io e la mia compagna di viaggio arriviamo un paio d’ore prima l’inizio del concerto, facciamo un giro per il centro, cerchiamo un luogo, ma aspettiamo di incontrare tre persone anziane che chiacchierano in dialetto pugliese per chiedere la direzione giusta. “Guardate ragazze se andate di qui ve lo trovate di fronte”, ci indica uno dei tre. Così con calma, accompagnate dal vento freddo che si insinua nei vicoli giungiamo al mare buio, calmo, e Bari diventa la Porta che divide il grigiore e i rumori di una città mediterranea dai colori e le voci del mercato: il giallo, il rosso e il verde delle spezie, il blu, il viola, il magenta delle stoffe, la musica che accompagna il lavoro dei venditori, le voci di chi si racconta, di chi vende e acquista al miglior prezzo. La Porta che segna il confine tra la mente e il cuore, sempre in comunicazione, perché è una Porta che non si chiude e non si apre. E’ un arco che si erge trionfante, come la Sublime Porta, attraversata da forestieri accolti con un tè alla corte del sultano…

 

Abbiamo riservato un posto in prima fila per il concerto di Aeham Ahmad e Radiodervish, per non perdere neanche un’emozione. Attendiamo impaziente il suo ingresso, entra toccandosi la testa per ringraziare, come per dire ‘ala rasi, l’espressione araba che letteralmente significa “sulla testa” usata come segno di disponibilità e apertura. Le sue mani scivolano sul pianoforte con potenza, mentre immagini della sua Siria distrutta scorrono alle sue spalle. Tra una canzone e l’altra ci racconta della Siria, della Palestina, della difficile condizione di rifugiato. “Io uso la musica come arma contro la guerra. Lo so che non può cambiare niente ma almeno può far aprire la mente, può far incontrare nuovi mondi, persone diverse senza muoversi da casa propria.” Per tutti noi forse essere lì è un po’ come manifestare la nostra solidarietà alla Palestina, alla Siria, a tutti i popoli oppressi, per augurarci libertà e giustizia, frasi ridondanti, che abbiamo sentito mille volte eppure ancora abbiamo bisogno di ribadire. Nabil Bey dei Radiodervish ricorda che il Festival quest’ anno dedicato alle nostre identità fluide, è stato ideato per riflettere. “Chi sono io? Nato in Libano da famiglia palestinese, ma sono anche un po’ italiano o prendete Aeham, ora anche un po’ tedesco.” Ci si augura un’Italia libera dal pregiudizio, curiosa, accogliente, dove la diversità possa essere fonte di arricchimento e non minaccia. Il concerto è un invito a guardarsi dentro per scoprire chi realmente siamo lontani da ogni definizione. È inoltre un invito alla consapevolezza, alla coscienza politica e così si menziona la recente dichiarazione di Trump su Gerusalemme, inaccettabile considerando i delicati equilibri della regione, messi in pericolo da semplici parole. “Tanto a lui che importa” commenta Aeham “lui non vive nel West Bank”. Nabil invita ad un presidio di solidarietà a Bari che si terrà due giorni dopo, poi riprendono le noti delicate di una musica mediterranea senza tempo, che vorrei non finisse mai….

 

Vivere altrove…con la Siria e la Palestina nel cuore

 

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Di Francesco Petronella* e Rosanna Sirignano

Avere a cuore le sorti della Palestina e la Siria, augurarsi libertà e giustizia per entrambi i popoli, informarsi, conoscere, approfondire, aprire gli occhi e resistere alla tentazione di chiuderli è doloroso.

Oltre ogni schieramento ideologico, oltre ogni appartenenza culturale, oltre ogni orientamento politico o religioso, libertà e giustizia sono valori che non accettano compromessi. La sensibilità verso ogni singola realtà in cui queste due pietre preziose dell’esistenza umana vengono messe in pericolo è una spinta spontanea cui non riusciamo a sottrarci.

Tutto questo significa vivere in una condizione di lutto costante, dove il piacere e la gioia hanno poco spazio e non sono mai totali. Questo è il male che affligge tutti i “poveri consapevoli”, o quelli che semplicemente si sforzano di guardare oltre, si preoccupano di qualcosa che va al di là del loro orticello, che non si crogiolano nelle loro beate certezze. Purtroppo tutto ciò ha un prezzo alto, e non si chiede a nessuno di mostrare la stessa solidarietà, né di comprendere, ma almeno di tacere, di lasciarci in pace.

Infatti è doloroso per noi constatare che, anche tra quelli che per attivismo e interesse sono sensibili ai temi legati ad altre zone del mondo, esiste una sorta di “sensibilità a corrente alternata”, una sorta di doppio standard nel valutare e/o supportare una causa o l’altra.

La mobilitazione che in questi giorni ha seguito l’annuncio del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello stato d’Israele da parte di  Trump è stata commovente. Le manifestazioni in Cisgiordania e a Gaza come pure in Italia, Marocco, Tunisia e altrove hanno dimostrato ancora una volta che aveva ragione Nelson Mandela quando diceva che “la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Anche noi siamo visceralmente convinti che una pace equa e duratura tra Israele e Palestina non sia solo un obiettivo necessario per i due popoli, ma anche la prova generale per un modello di convivenza e di giustizia che riguarderà il mondo intero.

Però, alcuni di noi oggi sono in una situazione diversa. Donne e uomini che la Palestina ce l’hanno nel cuore, che l’occupazione l’hanno vista, che i controlli ai check-point israeliani li hanno fatti, che la Cupola della Roccia l’hanno contemplata nella sua struggente bellezza, che gli sfibranti controlli in aeroporto li hanno subiti. Proprio noi, sì, ci sentiamo un po’ più soli tra quelli che sognano una Palestina libera. Ci sentiamo osservati come se avessimo un bubbone sulla fronte, un segno che ci differenzia dagli altri, una macchia che ci distingue. Quella macchia, che invece noi rivendichiamo con orgoglio si chiama Siria.

Essere al fianco della resistenza palestinese e sostenere la rivoluzione siriana significa essere per lo più soli, soli di fronte a comunisti anti-imperialisti nostalgici dell’Unione Sovietica. Gente che pensa che chiunque si opponga agli Stati Uniti, che pure hanno fatto davvero molto per meritarsi la fama di destabilizzatori ed esportatori fallimentari di democrazia, sia necessariamente foriero di bene, anche se si tratta di un regime sanguinario macchiatosi dei più atroci crimini. Tutti noi, che crediamo in una Siria libera dalla dittatura, dal terrorismo e sosteniamo i siriani che combattono per impadronirsi del proprio destino di autodeterminazione, siamo anche a fianco del popolo palestinese. Proprio per questo, però, non riusciamo a capire perché il contrario non sia così scontato.

Molti di noi, guardando le manifestazioni spontanee organizzate nei giorni dopo l’affaire Gerusalemmeone_revolution_by_abosherkoshamalhawa-d7rgu0e, hanno sicuramente ripensato a quella splendida manifestazione per la Siria libera del 7 ottobre scorso. In quell’ occasione, a Roma, abbiamo gridato con forza che la giustizia e la libertà non sono valori da negoziare e lo abbiamo fatto sventolando bandiere siriane e, ovviamente, palestinesi. Quel giorno, forse, ci sarebbe piaciuto vedere anche tanti di quei volti che in questi giorni hanno riempito le strade per la Palestina.

Siria e Palestina. Due paesi, una volta identificati con l’unica denominazione “Bilad al-Sham”. Due contesti diversi, certo. Ma ancora una volta sottolineiamo che è di giustizia e libertà che si parla, valori universali e non negoziabili. Se a negarli è un regime di occupazione o un regime che assassina brutalmente il suo stesso popolo, per noi non fa alcuna differenza. Inoltre non dimentichiamo i migliaia di rifugiati palestinesi in Siria sono stati brutalmente torturati e uccisi.

Vivere con la Siria e la Palestina nel cuore significa vivere sempre altrove, significa essere immobilizzati continuamente da un senso di impotenza, consapevoli che il nostro esiguo sforzo è una goccia minuscola in un oceano immenso, che non cambierà le cose e che nel mondo ci sono altre realtà simili che di sicuro ignoriamo e, dati i nostri limiti, non possiamo comprendere. Significa vivere con profondo disagio i propri privilegi, i propri agi, significa dover stare in silenzio, soffocare le lacrime, sorridere nonostante le persone sorde e cieche che ci chiedono, talvolta, “chi ve lo fa fare?”

 

Foto da : https://abosherkoshamalhawa.deviantart.com

*Francesco, laureato in Lingue e civiltà Orientali, è apprendista giornalista per il24.it, ha scritto anche per ilsussidiario.net e qcodemagazine.it.

 

La pace dei bimbi

la pace dei bimbi

West Bank, ottobre 2015. Ci eravamo riuniti tutti in una camera da letto quella sera: Io, Nura, le sue due splendide figlie di 12 e 13 anni, il piccolo Ali, nato da poco meno di un mese e Mustafa, di solo 9 anni. I soldati israeliani avevano circondato la zona e si temeva potessero entrare nelle case da un momento all´altro. Mustafa si accorse che stavo tremando dalla paura e mi chiese:

“Hai paura Maryam?”

“Sì un po’” risposi.

“E di cosa? Dei soldati?”

“Sì”

“Non ti preoccupare! Non verranno!”

“Inshallah” e continuavo a lottare contro la mia agitazione.

“Non avrai mica paura di morire?” – chiese Mustafa.

“Sì piccolo, ho paura.”

“Io no. Io non ho paura di morire.”

“Davvero?”

“Sì. Non dovresti aver paura neanche tu perchè ad ogni modo non sarai tu a decidere. Tu non puoi farci nulla. Se Dio ha deciso che stanotte morirai sarà così.”

E così Mustafa mi insegnò a credere nel Destino e a non temere la morte. Non so se sono riuscita ad imparare, so però di quanti bambini straordinari ho incontrato laggiù in Palestina. Per questo motivo sostengo il progetto ideato da Antonietta Chiodo “La pace dei bimbi”, un libro scritto interamente dai bambini palestinesi, per raccogliere la loro genuinità e ingegnosità, per dare voce ai loro sogni e speranze.

Per maggiori informazioni vedi qui: https://www.eppela.com/it/projects/12308-la-pace-dei-bimbi