Siria, la casa del cuore

Di Linda Covato

Particolare di un suq ad Aleppo

Ma-smuki? /Ismi Linda. /Ah, Linda! Linda Ism 3arabi. Enti sadika. Enti mitla-na.

(come ti chiami? /Linda/Ah, Linda! Linda è un nome arabo. Sei un’amica, sei come noi!)

Un giorno sul taxi, tornando all’università: Enti min…./Min Italiya./Enti italiyya! al- italiyyin ka-l suriyyin!… ma b-3arif as-sabab./Mumkin li-l bahr mutawassit/Ee!!! kullu-na min al-bahr mutawassit!!!

(Vieni da…/dall’italia./Sei italiana! Italiani e siriani sono uguali….anche se non saprei il perché /forse per il Mediterraneo/Sì!!! tutti noi veniamo dal Mediterraneo!)

La mia Siria è bayt qalbi. O Galbi. O Kalbi. A seconda di dove vado. La mia casa del cuore.

Qualcosa che è capace di dare vita, anche solo con il ricordo di un odore, un sapore, una musica, un immagine, a un sorriso, un racconto, una lacrima.

Vinsi una borsa di studio nel 2008 per frequentare un semestre ad Aleppo, tramite la facoltà di Studi Orientali della Sapienza di Roma. Sarebbe stato un viaggio per me fondamentale. Ha gettato le basi della Linda che sono oggi.

Linda a scuola in Siria nel 2008

La mia Siria è una terra di contraddizioni. Di corruzione nascosta in piena vista. Dove due università si accordano per una borsa di studio ma quando arriviamo ad Aleppo, accolte (eravamo in due) da due squisiti professori del dipartimento di lingue straniere dell’università, raggiungiamo la Dar ad-diyafa (casa dell’ospitalità, una sorta di studentato) dove è previsto che alloggiamo. E ops nessuno sa che dovevamo arrivare. Però, magia, accordandoci per un affictto mensile più alto, ecco comparire due stanze tutte per noi.

È la stessa Siria dove per avere il visto di uscita, passi ore al ministero degli affari esteri, passando da un petit général a un grand géneral, di stanza in stanza, di piano in piano, come in un quadro di Escher. Ore per avere due timbri, e sentirsi porre per decine di volte le stesse domande. E alla fine notare che tu e la tua compagna di università, arrivate in Siria lo stesso identico giorno, con lo stesso volo, avete due visti di uscita diversi.

Poi, però, pensi che in fondo in Italia, non è così diverso a volta. Le dinamiche sono le stesse, solo, magari, più discrete, più politically correct.

La mia Siria è Dar ad-diyafa, oggi rasa al suolo, all’università di Aleppo, dove ho conosciuto amici meravigliosi, con i quali sono ancora in contatto, dal 2008.

La mia Siria è l’Alto Istituto di Lingue, dove ho veramente imparato l’arabo, arrivando con solo qualche nozione di grammatica, dal nostro libro universitario, che è un libro del 1932 e spiega l’arabo come fosse una lingua morta. Ma le professoresse non hanno perso la fiducia in me, e sono arrivata a un parlato e uno scritto che mi ha stupito.

La mia Siria è Seif ad-Dawla, quartiere di Aleppo, oggi distrutto dove facevamo maxi cene con gli amici sudanesi.

La mia Siria è senza dubbio il cibo: il foul di Jdeide (si fanno scommesse degne di man versus food, su quante ciotole si riescono a mangiare), i succhi di frutta naturali, essere invitati a pranzo dalla prof e avere davanti una distesa del migliore cibo siriano, è passeggiare per il suq di Aleppo e fare shopping mentre i negozianti ti offrono tazze di te, o meglio ancora zuhrat.

Poi c’è l’ospitalità. Così grande che all’inizio non la credevo vera. Pensavo ci fosse qualcosa sotto. Mi sbagliavo. In Siria puoi entrare in un khan per comprare stoffa ed essere invitato a cena col tuo gruppo di amici, con kebab e musica. Puoi partire con i tuoi amici per cinque giorni alla scoperta dei villaggi cristiani intorno a Damasco ed essere invitati a dormire in casa di una famiglia.

Linda durante una gita in Siria nel 2008

C’è la tensione degli estremi. Potevi essere arrestato perché viaggiavi con un camper con antenna satellitare.

Allo stesso tempo, pur essendo un paese a maggioranza musulmana, le festività cristiane erano rispettate. Così in primavera ogni tanto scoprivo che non ci sarebbe stata lezione, perché era Pasqua. Ma come, non era Pasqua il mese scorso? Quella era la Pasqua siriaca. Questa è la Pasqua cattolica. Poi ci sarà quella ortodossa.

C’era la possibilità di trasformare ogni occasione in una festa, in un momento di condivisione. Allo stesso tempo, c’era censura dell’informazione. Quando arrivai a febbraio 2008, una decina di giorni dopo il mio arrivo, mi chiamò mia madre preoccupata “tutto bene?” “sì, perché?” “c’è stata una bomba a Damasco!” prendo il telecomando della sala comune, passo in rassegna tutti i canali e nulla. Questa notizia non apparirà mai.

Verso fine aprile con i miei compagni di corso e gli amici sudanesi organizziamo una gita a Qala’at Al-Jabr di Assad. Gli amici sudanesi ci dicono che non sarebbero potuti venire, perché c’era una festività importante in quei giorni e non potevano mancare.

Non era vero. O meglio la festività c’era. Ma loro non potevano dire in pubblico che sarebbero venuti in gita con noi, invece di rimanere in casa. Gli studenti sudanesi non erano visti di buon occhio, e ogni tanto i loro movimenti finivano nell’occhio del mirino. La nostra gita insieme l’abbiamo fatta. Uno dei luoghi più magici mai visti.

Linda durante una gita con i suoi compagni di classe in Siria nel 2008

La mia Siria è il tempo scandito dal mu’ezzin e dalle preghiere. É il rispetto del tempo per pregare.

È anche vivere le giornate come una barzelletta. Come quando andammo a Deir iz-zor con due amici, una ragazza franco-algerina, aveva doppio passaporto, e un ragazzo americano, anche lui doppio passaporto, americano e saudita. Loro entrambi musulmani. Quando arriviamo in stazione, tutti vengono fatti scendere dal pullman, tranne noi tre. E così come una barzelletta “l’americano e la francese devono andare al comando di polizia”. “E l’italiana?” “Vieni anche tu, dai”. E così ci ritroviamo a chiacchierare con tre poliziotti divertiti dal fatto che fossimo un americano, una francese e un’italiana, ma tutti avessimo nomi arabi.

Per me la Siria è meravigliarmi. La meraviglia del deserto dispiegato sotto Deir Mar-Mousa, per assistere alla messa di Pasqua con Padre Paolo Dall’Oglio e poi partecipare alle danze e ai festeggiamenti della Pasqua e pensare, che è così che dovrebbe essere la Pasqua ovunque, che dalle nostre parti, non ci abbiamo capito granché, forse.

La Meraviglia di Qala’at Salah-ed-din, e di Qala’at al-Jabr, del gelido e cristallino lago di Assad.

La Siria ti entra nel cuore, e nella testa, per restarci, al punto che ogni immagine di guerra, ogni notizia di spari e bombe, arriva dritta al cuore e affonda gli artigli.

*Linda Covato ha generosamente donato questo suo ricordo a La mia Siria. L’articolo è pubblicato oggi 15 marzo 2021 a 10 anni dall’inizio della rivoluzione siriana. Onore alle vitttime vive o morte di questa immensa tragedia umana. Onore ad ogni lacrima versata per questo dolore senza fine. Onore e gratitudine all’umanità che resiste sempre e comunque.

Quale umanità per la Siria. Il caso siriano come testimonianza di r-esistenza

Di Francesca Girani

La mia Siria come ponte tra i lavori delle biografie dei siriani Moustafa Khalifa, scrittore e Aeham Ahmed, musicista e scrittore.

Introduzione della prova finale in letteratura araba della studentessa Francesca Girani. Relatore prof.ssa Sana Darghmouni, Università di Bologna, Dipartimento di Lingue Letterature e Culture moderne.

Il  presente  progetto  elaborato  in  questi  mesi  non  vuole  essere  un’analisi  politica, geopolitica  o  sociologica  della  questione  siriana,  bensì  un  tentativo  di  dar  voce  a  un popolo  che,  nella  sua  ricca  disomogeneità  e  tragica  storia,  ha  cercato  da  sempre  di resistere, esistere, come ci mostra la scrittrice Rosanna Maryam Sirignano nel suo libro La mia Siria. Ella, italiana di origine, é entrata in contatto con la Siria grazie ai suoi studi  e  mai  ha  potuto  abbandonarla.  Il  suo  rapporto  intimo  con  questa  terra  e  il  suo popolo lo si comprende attraverso le preziose testimonianze che ha raccolto. Per questo motivo  l’ho  scelta  come  collante  e  intermediaria  fra  due  mondi  che,  al  contrario  di quanto si pensa, sono accomunati da molteplici elementi, primi fra tutti, il cuore di ogni uomo  che  si somiglia perché grida e cerca la libertà. Le sue testimonianze mettono in luce  e  collegano  quel  mondo  che,  da  troppi  anni,  si  trova  a  vivere  una  profonda diaspora:  una  Siria  distrutta  dalla  guerra,  difficilmente  riconoscibile  ora  sotto  le macerie, ferita al profondo, i cui i resti testimoniano un barlume di speranza e di vita. Le storie  del  siriano  Moustafa  Khalifa,  e  Aeham  Ahmad,  appartenente  alla  minoranza Palestinese in Siria e cresciuto nel piccolo paesino di Yarmouk vicino a Damasco, sono di  fatto  l‟esempio  lampante  di   come  la  vita  possa  andare  avanti  e  possa  trovare  una ragione  anche  quando  tutto  quello  che  c‟era  un  tempo,  dagli  affetti,  a  un  luogo  da chiamare casa, un luogo dove lavorare o studiare, ora è venuto meno, è stato colpito ed è  radicalmente  cambiato.  Le  loro  crude  biografie,  che  non  risparmiano  al  lettore dettagli, sentimenti o filtri, fanno luce sui fatti accaduti durante gli anni di prigionia sia fisica, nel caso di Moustafa, che spirituale, nel caso di Aeham, rappresentando in modo particolare ciascun siriano, e universale ogni uomo. La loro storia, divenuta pilastro per la  letteratura  del  dissenso,  di  prigionia  e  di  esilio  fisico  e  mentale,  ricorda  che  ogni uomo ha un talento, una peculiarità, che possiede solo lui, che scopre nel Tempo, nella pazienza  maturata  dentro  la  sofferenza,  nella  tragicità  delle  circostanze,  nelle  fatiche della propria esistenza,  ma che, se scoperto ed educato, lo accompagna per tutta  la sua vita.  Queste  tematiche  sono  l‟oggetto  della  mia  indagine  e  sono  accompagnate  da molteplici  quesiti  che  si  trasformano  nel  fil  rouge  che  pondera  il  seguente  progetto: dove sta la speranza in un mondo in cui sembra vincere solo il Male; come può l’ uomo resistere quando spesso viene annullato; quale vita c‟è in Siria. Questi interrogativi non sono né scontati né banali, soprattutto quando ci si accorge che le domande che la Siria e il suo popolo pone, si trasformano e vengono condivise anche oltremare; ed è qui che sta  la  sua  potenza.  Si  è  cercato  il  più  possibile  di  rimanere  fedele  alle  parole autobiografiche degli scrittori che  si sono  prese  in analisi, trovando con molto stupore sentimenti  ed  esperienze,  certamente  calate  in  circostanze  diverse,  che  riprendono  la vita quotidiana  di ognuno: come un uomo riesce a vivere e dove trova la forza per farlo quando  è  “rinchiuso”  fra  ostacoli  o  mura  che  non  ha  scelto?  Questa  commovente attualità  che  la  letteratura  siriana  presenta,  è  conferma  di  quanto  si  è  scoperto  nei seguenti capitoli.

Nessuno si senta escluso da questa ricerca.

Abbigliamento e Islam: in cerca di equilibrio tra spiritualità e moda

Riflessioni di Safiyya Surtee, traduzione e adattamento dall’inglese all’italiano di Rosanna Maryam Sirignano

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L’abbigliamento è un aspetto indispensabile dell’esistenza umana: abbiamo bisogno di abbigliarci per motivi meramente pratici e utilitaristici, per proteggerci dagli agenti atmosferici, al contempo l’abbigliamento ha tante altre funzioni nelle nostre vite, in primis come segno di dignità e abbellimento. Il Corano afferma:

“Figli di Adamo, vi abbiamo donato delle vesti per coprire le vostre parti intime e come ornamento, però la miglior veste è la taqwa (pietà, consapevolezza della presenza divina). Ecco un segno di Dio affinché essi ricordino” (Corano 7:26)*

Da questo versetto impariamo che i migliori capi di abbigliamento sono quelli che instillano taqwa nei nostri cuori, che, cioè, ci ricordano di Allah e ci conducono alla consapevolezza della Sua presenza nel nostro profondo. L’atto di vestirsi ha un importante scopo spirituale, che va oltre il principio di necessità e il mero adornamento. Vestirsi come atto di consapevolezza spirituale è un concetto stupendo: in questa ottica, una semplice azione diventa uno dei segni di Allah attraverso il quale possiamo ricordarLo. Avete notato che gli abiti che riserviamo alle preghiere, al dhikr**** o che indossiamo per entrare in una moschea, anche se fosse una semplice sciarpa o un mantello, sono intrisi di un senso di spiritualità, perché li adoperiamo con profonda consapevolezza della presenza di Allah? Quando li indossiamo, entriamo in una diversa dimensione, con determinazione e particolare cura. Nella tradizione spirituale islamica, consegnare un pezzo di stoffa, come una sciarpa, è un gesto che si fa per connettere lo studente al maestro e simboleggia il legame di fiducia e amore. Alcuni dei Compagni del Profeta Muhammad ***  gli chiesero un pezzo dei suoi abiti a cui diedero un enorme valore; uno di loro addirittura usò un manto ricamato del Profeta come suo sudario (Bukhari). L’abbigliamento, in una prospettiva islamica, è anche parte integrante dell’adab, l’eccellenza nella condotta, come si evince dai principi etici contenuti nel Corano in cui Allah ci dice:

“Figli di Adamo, adornatevi quando vi recate in un luogo di preghiera: mangiate e bevete. Non siate eccessivi, poiché Allah non ama gli eccessi” (Sura 7:31)

Questo versetto suggerisce al credente di adoperare un abbigliamento adeguato per le preghiere: questa è una delle azioni che fa parte dell’adab di accostarsi ad Allah. Questo passo ci ricorda anche di non scadere in eccessi, perché l’abbigliamento potrebbe diventare anche simbolo di orgoglio e arroganza. Ognuno di noi ha il dovere di esaminare le proprie intenzioni e la sincerità in qualsiasi azione, inclusa la scelta dell’abbigliamento. La modestia è una delle caratteristiche peculiari dell’Islam, e dovrebbe essere il nostro principio guida.

Attraverso l’abbigliamento esprimiamo la nostra individualità, la nostra identità culturale e a volte la nostra appartenenza politica (ad esempio in alcuni paesi a maggioranza islamica, il modo in cui le donne avvolgono il copricapo indica la loro inclinazione politica). Il colore e la creatività sono allo stesso modo parte del dress code islamico all’insegna della modestia e della semplicità: la sfida consiste nel trovare un equilibrio. Il messaggio del tawhid** ci permette di accogliere la diversità senza forzarla ad uniformarsi, poiché siamo tutte creature uniche di Allah. Per questa ragione, il tobe sudanese, il kanga della Tanzania, i buba e gele nigeriani, la jalabbiyya nordafricana, il sari e salwar kameez indiano o il baju kurung malesiano possono essere tutti considerati “islamici”, perché sono tutti manifestazioni di modestia e bellezza.

Dalla Sunnah, impariamo che il Profeta, ogni volta che indossava un nuovo capo di abbigliamento lo menzionava con gioia e diceva: “Oh Allah! Per te è la lode, mi hai vestito, Ti chiedo per il suo bene e per il bene per cui è stato fatto, cerco rifugio in Te dal suo male e dal male per cui è stato fatto” (Tirmidhi). Il Profeta insegnò anche ai suoi seguaci di iniziare a vestirsi dal lato della mano destra (Abu Dawud). Incoraggiò a vestirsi di bianco, dicendo che il bianco fosse la miglior scelta di colore per gli abiti (Nasa’i) e amava usare lo stesso abito per molto tempo prima che diventasse logoro (Bukhari).

Le donne vicine al Profeta in quanto ad abbigliamento erano per lo più preoccupate della purezza degli abiti della preghiera, e questa era la principale questione che riguardava l’ abbigliamento. Esse indossavano abiti di vari colori. Anas ibn Malik disse di aver visto Umm Khultum, la figlia del Profeta, indossare un indumento di seta rossa (Bukhari), una donna una volta si recò da Aisha per un reclamo e in questo racconto è menzionato il fatto che indossasse un indumento verde (Bukhari). In un altro racconto si narra che una giovane donna si recò dal Profeta che indossava una camicia gialla che gli piaceva molto e che la indossò per molto tempo come testimoniato dalla ragazza (Bukhari). Si narra inoltre che il Profeta vestì sua figlia Fatima con un abito di velluto rosso (Nasa’i) e che Aisha indossava spesso un manto di seta (Muwatta) che suo nipote Abdullah ibn Zubayr le aveva donato. In un’altra tradizione, si dice che il Profeta proibì ad una donna nello stato di ihram, stato di purità rituale dei pellegrini, di indossare guanti, veli per il viso e vestiti colorati con lo zafferano; e permise a tutti, quando lo stato di purità si era compiuto di indossare quello che desideravano, abiti colorati di giallo, seta, gioielli, pantaloni, camice e scarpe (Abu Dawud).

Le donne al tempo del Profeta indossavano cinture e fasce dalla famosa storia di Asma bint Abu Bakr leggiamo di come usò la cintura per legare la sacca del cibo del Profeta e suo padre Abu Bakr in occasione della migrazione a Medina (per questo le fu dato il nome di “dhat al nitawayn” “la donna delle due cinture). Le donne avrebbero indossato gioielli anche in occasione di  incontri. È narrato, ad esempio, che dopo il sermone di una preghiera dell’Eid, festa,  il Profeta andò dalle donne con Bilal che distese un pezzo di stoffa chiedendo donazioni e che loro cominciarono a riempirlo con anelli, orecchini e altri gioielli. (Bukhari).

Come donne del mondo moderno abbiamo bisogno di imparare dalla semplicità delle donne che circondavano il Messaggero di Allah, in modo da non essere preda delle tendenze materialistiche e consumistiche del mondo della moda, in cui i corpi delle donne sono manipolati e ridotti a oggetto. Dovremmo resistere agli irrealistici ideali rappresentati dall’industria della bellezza attraverso un modo di vestire al servizio della spiritualità e della taqwa. Dovremmo anche resistere, come donne musulmane, all’essere ridotte al concetto di hijab, velo islamico, che tende ad essere l’unico punto focale dei discorsi sulle donne e l’Islam. La nostra spiritualità e scopo della vita si estende molto al di là e al di sopra di quello che indossiamo. Anche se seguiamo la moda occidentale moderna, non dovremmo abbandonare i nostri abiti culturali e tradizionali o essere titubanti a sperimentare il modo di vestire di altre culture. L’abbigliamento è anche uno dei doni e delle benedizioni del paradiso, jannah, quindi vestire in modo modesto qui ed ora in questo mondo, rendendo Allah visibile attraverso i nostri abiti, ci ricorda della vita eterna che verrà, e Allah promette al popolo del Paradiso:

“portano abiti verdi di seta fine e di broccato, sono ornati di bracciali d’argento, il loro Signore li disseterà con una bevanda purissima.” (Corano 76:21, traduzione di Ida Zilio Grandi)

Questo straordinario passaggio dovrebbe essere un promemoria per impegnarci ad indossare questi abiti del Paradiso, piuttosto che rivolgere le nostre preoccupazioni solo all’abbigliamento in questo mondo.

*La traduzione del Corano in italiano è di Rosanna Maryam Sirignano laddove non esplicitato.

** Il tawhid è il principio cardine alla base del concetto dell’unità e unicità di Dio (Allah)

*** Nel testo originale l’autrice riporta quella che in italiano è la sigla PBSL, Pace e benedizione su di lui, l’eulogia che i musulmani menzionano ogni volta che nominano il Profeta Muhammad. Lo stesso vale per altre personalità della storia islamica al cui nome sono seguite  formule di lode di altro tipo. Nella traduzione italiana si è scelto di non riportarle in forma scritta per una più agevole lettura anche da parte di persone non musulmane.

**** Il dhikr, letteralemte “ricordo”, è un atto devozionale islamico che consiste nella menzione ripetuta di una formula di lode a Dio o di uno dei suoi 99 nomi più belli.

 

Safiyya Surtee è una ricercatrice, scrittrice e blogger. Si occupa di Islam, femminismo, politica e spiritualità. Molto attiva per la sua comunità, ad esempio è membro del comitato del Masjid al-Islam, una moschea gender inclusive e non settaria a Johannesburg.

 

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Di conversioni e operazioni di salvataggio

 

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di Margherita Picchi *

Mi piace considerarmi una figlia dell’Illuminismo.

Ho ricevuto un’educazione laica, improntata a un’etica rigorosamente anticlericale, per non dire antireligiosa: quand’ero un’adolescente impegnata, mi definivo robespierrista. Non che l’universo religioso fosse assente dalla mia infanzia (tutt’altro), ma invece della Bibbia mi sono stati letti i miti greci, e non ho fatto catechismo né religione cattolica a scuola; fatto peraltro ben poco insolito nella mia città natale, Firenze, dove sono cresciuta a pane e blasfemia e all’ora di religione in classe restavano quattro gatti.

Avevo 16 anni l’11 settembre 2001, quando le Torri Gemelle sono crollate nell’attentato terroristico più famoso della storia contemporanea (dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, forse). Dieci anni dopo mi laureavo all’Orientale di Napoli con una tesi specialistica sul pensiero di Sayyid Qutb, il maggiore ideologo dell’islamismo radicale contemporaneo. Avevo deciso di specializzarmi in storia dell’Islam politico perché volevo capire chi erano, questi Altri che secondo i media ci odiavano, e avevo capito presto che la storia era ben più complessa di così. Avevo capito che terrorismo ‘jihadista’ e Islam politico sono due cose diverse, che il primo è la degenerazione del secondo un po’ come il terrorismo rosso è stato la degenerazione del pensiero di Marx e il Terrore francese del robespierrismo; e avevo capito che il jihadismo è un fenomeno che si spiega molto meglio leggendo il contesto storico politico dell’800-‘900 piuttosto che le parole del Corano (questa storia l’ho raccontata altrove): quello che mi preme qui raccontare è che questa maggiore comprensione non aveva intaccato di un millimetro la mia convinzione che l’Islam fosse una religione irrimediabilmente maschilista.

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Margherita al GayPride 2010 (Napoli) Foto di Emma di Taranto

Non che avessi un’opinione migliore del Cristianesimo, dell’Ebraismo, o delle religioni in generale. L’unica scelta ‘giusta’ per le donne mi pareva quella del laicismo. Il semplice fatto che i paesi del mondo che hanno il risultato migliore nel gender gap index siano anche quelli che hanno la percentuale più alta di ateismo mi pareva una solida base per concludere che la strada dell’emancipazione femminile dovesse necessariamente passare dall’abbandono della religione, e che le donne non religiose fossero più emancipate di quelle che si identificano come tali. Era un ‘dogma’ che non avevo mai messo in discussione.

Cosicché, quando l’amica più cara che ho conosciuto all’università mi ha annunciato di essersi convertita all’Islam, la mia reazione è stata di shock.

Non capivo. Com’era possibile? Conoscevo Rosanna come una ragazza brillante, certo un po’ tormentata, ma lucida e aperta di mente. Eravamo andate a un gay pride insieme. Ammiravo il grande coraggio con cui aveva scelto di imbracciare uno stile di vita e un pensiero laico, allontanandosi dalla religiosità molto rigida cui l’avevano educata i suoi genitori, testimoni di Geova. In questo senso, la sua era stata una ‘scelta’ molto più della mia, che alla laicità ci sono stata cresciuta. Non capivo come potesse essere ‘tornata indietro’, tanto più per imbracciare l’Islam. Ma l’aveva letto il Corano, i versetti che attribuiscono ai mariti un ‘grado di privilegio’rispetto alle loro mogli, e il diritto di disciplinare con la forza le consorti disobbedienti?

Ero turbata, arrabbiata. Ci ho dormito male diverse notti. E alla fine ho concluso che qualcuno le aveva fatto il lavaggio del cervello e che era mio dovere di amica andare a salvarla.

Rosanna si era infatti convertita in Siria, dove avevamo pianificato di andare entrambe a studiare l’arabo – prima della guerra Damasco era una meta privilegiata per gli studenti di arabo di tutto il mondo. Lei era partita qualche mese prima di me, io l’avrei raggiunta a dicembre 2010; ed è proprio qualche settimana prima del mio arrivo che lei ha deciso di raccontarmi la sua decisione di convertirsi, perché non lo scoprissi all’arrivo.

Scelta saggia, di cui la ringrazio – almeno ho avuto modo di abituarmi all’idea.

Riflettendo sulla notizia, ho concluso che un mutamento così repentino non poteva spiegarsi che con una sorta di lavaggio del cervello (mi aveva detto che non c’entrava un uomo, ma non ci avevo creduto subito), e mi sono armata di argomenti razionali per decostruirlo. Ho comprato una copia di L’illusione di Dio di Richard Dawkins, l’ho infilata in valigia e mi sono ripromessa di regalargliela appena arrivata – così, tanto per cominciare la conversazione.

Poi sono atterrata all’aeroporto di Damasco, e finalmente l’ho vista.

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Margherita e Rosanna in un ristorante a Damasco poco prima di rientrare in Italia

Lo ricordo molto bene, ed è buffo, perché non ho alcuna memoria di quando io e lei ci siamo conosciute, ma ricordo come fosse ieri quando l’ho vista per la prima volta come Maryam. Ho pensato che il “cencio in capo” non le stava poi male, e sono rimasta spiazzata da quanto era raggiante il suo sorriso. Somigliava un po’ a quello con cui è stata fotografata al suo arrivo Silvia Romano: anche se la storia di queste due donne è molto diversa, la luminosità che ho visto era la stessa. Era come se nel mettersi un velo se ne fosse tolta un altro; come se si fosse sollevata un’ombra (ho scritto che era ‘un po’ tormentata, ricordate?), che non ho visto tornare mai più.

Il libro gliel’ho dato e lei l’ha accettato con molto garbo, ma mi sono sentita una stupida all’istante. Il sermone laicista che mi ero preparata è risultato goffo e inadeguato pure a me, e l’ho tagliato corto molto presto. Era chiaro che fosse felice, più felice di prima, e che diamine di senso poteva avere ‘salvare’ la mia amica da qualcosa che l’aveva resa felice?

Ho ritenuto più intelligente chiudere la bocca e aprire gli occhi e le orecchie. E’ stata un’esperienza istruttiva, che ha avuto un ruolo determinante nel farmi poi scegliere di specializzarmi nello studio del femminismo islamico, e sostenere il lavoro delle donne che quei famosi versetti scelgono di contestualizzarli, invece di usarli come scusa per oscurare il profondo egualitarismo del messaggio coranico.

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Margherita a Damasco fotografata da Rosanna

Più di ogni altra cosa, forse, è stata l’accoglienza che ha ricevuto Rosanna al suo ritorno a motivarmi. Anche lei si è infatti presa la sua dose del fango che si riversa in modo inevitabile su ogni donna che scelga di convertirsi all’Islam (e che di solito risparmia gli uomini che fanno lo stesso, chissà perché). Ho sentito cattiverie sul suo conto che mi vergognerei a riportare: ed eravamo all’università di Napoli ‘l’Orientale’, fra studenti di arabo e studi islamici, non nella sede della Lega di Predappio. Come se la sua scelta costituisse qualche sorta di tradimento culturale imperdonabile, anche fra gente ‘acculturata’, di sinistra, antirazzista.

Ed ecco che Silvia Romano torna a casa, e succede di nuovo, su scala ovviamente molto maggiore. Il suo velo fa più notizia della sua liberazione, quotidiani nazionali sbattono ‘l’ingrata’ in prima pagina, l’accusano di essere tornata ‘con la divisa del nemico’, accostano la foto del suo ritorno a vecchie immagini in minigonna titolandole ‘liberata?’. Se da sinistra la si difende comunque si tentenna, e le diagnosi improvvisate di ‘sindrome di Stoccolma’ passano di bocca in bocca, di post in post.

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Margherita nella moschea di Sayyda Ruqqaya fotografata da Rosanna, che quel giorno le prestò il velo

In fondo lo capisco. Ci sono passata. Se assumiamo come dogma che la condizione di ‘laicità’ sia quella che concede maggiori libertà a una donna, che tutte le religioni siano patriarcali e l’Islam la più patriarcale di tutte, quella di passare da ‘laica’ a ‘religiosa’, tanto più ‘musulmana’, non può che apparire come una scelta ‘folle’. E per spiegare una scelta che ci appare ‘folle’, il ‘lavaggio del cervello’ offre una spiegazione comoda: e se è comoda sempre, figurarsi dopo 18 mesi di prigionia.

Ma i percorsi di crescita e di liberazione – personali come collettivi – non sono tutti uguali, e dovremmo liberarci noi di questa arroganza tutta occidentale di ritenere il nostro sistema socio-culturale l’unico che sia davvero umano.

Guardatela meglio. Guardate come sorride, perché è l’unica cosa che possiamo fare. Non potete sapere cosa sia a rendere così luminoso quel sorriso, ma potete essere felici per lei, risparmiarvi i giudizi, e lasciarla stare. Se non capite, tacete e ascoltate, che se vorrà ce la racconterà lei la sua storia, quando vorrà. E se deciderà di tacere, potete ascoltare le storie di tante altre donne musulmane, che hanno tanto da dire e nessun bisogno di essere salvate.

 

* MARGHERITA PICCHI ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle donne e delle identità di genere presso l’Università Orientale di Napoli nel 2016, dove già aveva ottenuto nel 2011 la laurea specialistica in Scienze delle lingue, storia e cultura del Mediterraneo e dei paesi islamici. I suoi interessi di ricerca includono gli studi coranici e il pensiero  islamico contemporaneo, oltre che gli studi di genere e queer in contesti musulmani. Dal 2018 è assegnista di ricerca presso la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, dove conduce una ricerca sulla teologia islamica della liberazione in Sudafrica.

La mia Siria – poesia di Francesca Scalinci

Una poesia dal titolo familiare, di seguito la traduzione italiana di “My Syria” di Francesca Scalinci, a seguire l’originale inglese e la traduzione araba a cura di Yassin Al-Haj Saleh)

 

La mia Siria 

La mia Siria non è

solo un luogo sulla mappa

Né  nomi di posti visti solo in sogno

Daraa, Dimashq, Homs, Hama, Halab

O meglio, la mia Siria

È  su una mappa

Di dolore invisibile

Che si stende da oceano a oceano

Da polo a polo

La mia Siria

Si rialza Sempre

Raccoglie la dignità

Ingoia gli affanni

E si mette a  lavoro

La mia Siria è il sorriso

Di ogni amico stretto tra le braccia

Brandelli di cuore qua e là sparsi

Familiari scomparsi

Come arti fantasma doloranti

La mia Siria dice: Alhamdulillah

Sia lodato Iddio

Sebbene dal cielo

Piova sangue

E non più pioggia

Così grave il dolore

Da crepare le ossa e spezzarle

Una ad una finché nulla rimane

La mia Siria

è negli occhi di chi in ogni angolo di questa terra

ricostruisce la vita mattone su mattone

Lacrima su lacrima su lacrima

La mia Siria piange e muore inascoltata

fiore schiacciato dal peso di un silenzio codardo,

Voce soffocata di chi più non è

O più non si trova

La voce del prigioniero

Ma la mia Siria è lotta per libertà, dignità e giustizia

E la mia Siria sorride e dice:

Le vedi queste ceneri?

Da queste ceneri risorgerò

Da queste ceneri rivivrò

Con queste ceneri chi sono

Ti mostrerò

Poi mi guarda negli occhi e dice:

Lo vedi questo sangue?

Lo vedi?

Questo sangue che mi inzuppa vesti, anima e mani?

Ne farò oro e gelsomino

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L’autrice Francesca Scalinci, è dottore di ricerca in Studi anglo-americani (Università Ca’ Foscari di Venezia),  in studi postcoloniali e letterature anglofone. A lungo si è occupata di Caraibi per passare negli ultimi anni, catturata quasi da un richiamo ancestrale, al Mediterraneo. Ha scritto di narrativa di “guerra” di Cipro,  Libano e  Palestina. Oltre alle pubblicazioni accademiche, scrive racconti per bambini e ragazzi, e poesie  quasi sempre in inglese. Nel 2013, inizialmente attraverso la strada del volontariato, si avvicina alla Siria. “Ogni siriano che conoscevo faceva crescere in me l’amore e il rispetto per questo popolo. Ho sentito dunque la necessità di conoscere più approfonditamente la storia siriana, passando presto dal volontariato all’attivismo.”Io, che in Siria non sono mai stata, escluso il Jawlan occupato, amo profondamente questo paese e questo popolo.” racconta Francesca. Al momento è impegnata in un progetto di scrittura, ancora in nuce, riguardante proprio la Siria. Alla Siria sono anche dedicate due poesie a cui tengo molto: “I Am No Syrian Woman” e appunto “My Syria” (di seguito il testo originale inglese e la traduzione araba di Yassin Al-Haj Saleh)

My Syria 
My Syria is not
Just a place on the map
It’s not just the name of places
I’ve only seen in my dreams
Daraa, Dimashq, Homs, Hama,Halab
My Syria lies on a map
Of invisible pain
Stretching from ocean to ocean
From pole to pole
My Syria
Always gets back on her feet
She collects her dignity
Swallows her sorrows
And goes back to work
My Syria is the smile
Of every friend
I’ve held in my arms
Heart scattered around
Missing family members
Like aching phantom limbs
My Syria says
Alhamdulillah, praise be to God
Even when the sky’s dripping blood
Instead of rain
And so unbearable is the pain
That bones start cracking
One after the other
Until nothing whole is left
My Syria’s in the eyes of those who
In every corner of the world
Rebuild life
Brick by brick by brick
Tear after tear after tear
My Syria dies and cries
But goes unheard
It’s a flower crushed
Under the numbing silence
Of the coward
It’s the silenced voice of those
Who are no more
Or are nowhere to be found
But my Syria is struggle
For freedom, dignity and justice
And my Syria smiles and says
From these ashes I will rise
From these ashes I will live again
My Syria says, I will show you who I am
My Syria looks me in the eyes and says
You see this blood,
This blood covering my clothes?
I will turn it into jasmine and gold

سوريتي

سوريتي ليست مجرد مكان على الخريطة
ليست مجرد اسم لأمكنة
رأيتها في أحلامي: درعا، دمشق، حمص، حماه، حلب
سوريتي هي هناك على خريطة من الألم غير المرئي
تمتد من المحيط إلى المحيط
من القطب إلى القطب

سوريتي تقف على قدميها بعد أن تقع
تسترجع كرامتها
تبتلع أحزانها
وتعود إلى العمل
سوريتي هي ابتسامة كل صديق عانقته بين ذراعي
قلبه متناثر هنا وهناك
بين أفراد العائلة المفقودين
مثل وجع باقٍ لأطراف مبتورة
سوريتي تقول: الحمد لله!
حتى حين تقطر السماء دماً بدل المطر
وحين الألم لا يطاق
وحين تشرع العظام تطقطق
واحداً بعد الآخر
حتى لا يبقى بينها ما هو سليم

سوريتي هناك في عيون أولئك الذين في كل أصقاع العالم
يعيدون بناء الحياة
لبنة بعد لبنة بعد لبنة
دمعة بعد دمعة بعد دمعة

سوريتي تموت وتصرخ
لكن صوت صراخها لا يُسمع
إنها زهرة سحقت
تحت ثقل صمت مخدر
صمت الجبناء
إنها صوت أولئك الذين لم يعد يمكن العثور عليهم
لم يعودوا في أي مكان

لكن سوريتي هي كفاحٌ من أجل الحرية، الكرامة، والعدالة

سوريتي تبتسم وتقول
سوف أنهض من وسط هذا الرماد
ومن وسط هذا الرماد سأنبعث
سوريتي تقول: سوف أريكم من أنا

سوريتي تنظر إلي في العينين مباشرة، وتقول: أترين هذا الدم
الذي يغطي ثيابي؟
سوف أجعل منه ياسميناً وذهبا

Dov’è la tua casa, Nouruz?*

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“La mia casa è tra gli ulivi. Avevamo un grande giardino. C’erano sette grandi alberi di ulivo.

Ero un bambino, avevo 6 o 7 anni. E talvolta raccoglievo le olive con le mie piccole mani.

Quando avevo 13 anni, mi sedevo spesso tra gli ulivi e pensavo. Per esempio mi chiedevo: dove è Dio, perché non lo vedo? O perché non sono in grado di parlare con gli uccelli?

Direi che quel luogo, tra gli ulivi, è l’unica casa che ho conosciuto fino ad ora.
Ho ricordi molto intensi della mia infanzia trascorsa tra questi alberi. Penso che i miei genitori attraverso l’uliveto hanno educato il mio cuore. Li penso, mentre si prendevano cura di quegli alberi

Ora capisco che nella natura si ritrova quanto di più pacifico il mondo possa offrire “.

 

Nouruz da Qamişlo, Rojava (Kurdistan siriano), studia Etnologia e Storia in Germania, dove è arrivato nel 2013.

 

*Tradotto e adattato dal tedesco:

https://insani2017.wordpress.com/2017/09/23/wo-hast-fuehlst-du-dich-am-meisten-zuhause-nouruz/

 

Un minuto di silenzio per la Siria

ndafe

rosa nera

Ho letto e sentito tanti commenti sulla Siria in questi giorni. Analisi geopolitiche, articoli di approfondimento, opinioni sensate. Ho seguito quel tifo insensato. Ho cercato di capire, di dare un senso a fatti dai contorni troppo sfumati. Mi ha fatto impressione vedere come oggi possiamo scegliere la nostra verità in base a presunte convinzioni politiche, spacciandola per assoluta.

Poi, questa mattina, ho ottenuto un’intervista con un siriano di cui preferisco non riportare il nome. Vive a Damasco ed è originario di Aleppo. Si è raccomandato di chiamarlo su whatsapp, non al cellulare. Una chiamata ricevuta da un numero israeliano gli causerebbe problemi. Abbiamo discusso di Siria e quei famosi nomi – Trump, Assad, Ribelli, Putin, Hezbollah e chi più ne ha più ne metta – non sono mai stati pronunciati. E io sono stata costretta a cambiare la mia scaletta.

L’uomo ha scelto di descrivermi quello che aveva intorno. C’è una società che era giovane ma che non lo è più, oggi fatta di anziani, come i suoi vicini. Non vogliono andar via, che hanno da perdere. I ragazzi invece sono partiti ma non si sa dove siano. I bambini rimangono e necessitano tutti di un sostegno psicologico prima ancora di imparare a parlare. Se cade un piatto, hanno paura si tratti di un colpo di mortaio e scappano. Non piangono.

La sensazione è quella di essere in prigione. Di non potersi muovere. A Damasco, quella che era la capitale di uno stato oggi inesistente, la situazione non è drammatica come ad Aleppo. La vita va avanti. Attentati, sì, ma non bombardamenti a tappeto, soldati, eserciti, bus verdi, schieramenti, jihadisti, sfollati. Puoi andare al supermercato a far la spesa.

Però, se vivi a Damasco, il senso di colpa non ti abbandona mai. Quella sensazione di essere strangolato. Quell’imbarazzo di dover sempre far appello agli aiuti umanitari per poter campare. Quel voler ritrovare la tua dignità. Non lavori, chiedi il pane, sopravvivi. Quella paura che si insinua appena esci sul pianerottolo. Sapere di essere comunque più fortunato dei rifugiati che la città accoglie, tutte quelle persone dal dialetto bizzarro che arrivano dal Nord e dall’Est. Arrivano in cerca di ospedali, mi dice. Tutti i malati vengono a Damasco per curarsi, ma spesso non possono permetterselo. E allora bisogna, di nuovo, chiedere aiuto a qualcuno. E ti senti uno zerbino.

Conclude così: « qui siamo esausti. Stufi di subire la guerra degli altri ».

Stiamo zitti. Oggi non voglio leggere altri commenti sulla Siria.

Arianna Poletti

E così mi liberai dal velo… (prima parte)

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Heidelberg, maggio 2014. Era ormai trascorso quasi un anno da quando, per inseguire la mia passione, nella speranza di trovare condizioni migliori e di costruire qualcosa di importante, solido e duraturo, avevo lasciato il mio amato Sud. In Germania era piuttosto semplice circondarsi di musulmani, che soprattutto a Mannheim, dove vivevo, erano ovunque. Frequentavo un paio di moschee, dove avevo la possibilità di parlare l’ arabo e di migliorare la pratica religiosa. Qui il mio velo passava piuttosto inosservato e non avevo quasi mai la necessità di spiegare agli uomini che non dovevano stringermi la mano. Mantenevo una certa distanza anche con il mio capo, che un giorno, con mia grande sorpresa, mi consigliò di “smetterla di recitare la parte”. Non capii bene a cosa alludeva, fu lei a spiegarmelo, il mio raggio di sole nelle grigie giornate di Heidelberg…

Palermo, giugno 2015. Lascio che sia lei a raccontare: “Rosanna è stata la prima ragazza italiana che ho conosciuto ad Heidelberg, poco più di un anno fa. Ci siamo ritrovate in una mailing list comune dell’Università e vedendo il suo nome italiano le ho scritto una mail per invitarla per un caffè. Quando ci siamo incontrate non nascondo lo stupore che ho provato nel trovarmi davanti ad una ragazza che, con il suo marcato accento campano e uno splendido sorriso, portava il velo, il suo hijab, come ho imparato poi. Quel giorno il caffè, si è trasformato in una chiacchierata di quasi 4 ore. Siamo diventate amiche. Da Rosanna ho imparato e sto imparando tanto. Rosanna, cresciuta in una famiglia cristiana, ha scelto di convertirsi. Ha scelto di conoscere e di conoscersi in profondità e seguire quello che il cuore le suggeriva. La sua è stata una scelta coraggiosa che ha portato avanti con gioia e umiltà. E amore. Da Rosanna ho imparato e sto imparando ad accogliere l’Altro… e l’Altro si può accogliere solo se si accetta di mettere per una attimo da parte le proprie “certezze”. Se si impara ad ascoltare, conoscere e rispettare con il cuore e senza quei pregiudizi che tutti fingiamo (o crediamo) di non avere.”

Lei vedeva in me quello che io avevo dimenticato, sepolto, soffocato. Anche io ho imparato tanto dalla nostra amicizia. Lei ancora non lo sa, ma fu un suo piccolo regalo, una trousse a forma di bambolina giapponese a liberarmi …

Alla prossima puntata!

Maria Rita & Rosanna

La mia Siria e il “sogno americano”

Huda Alawa all’indomani della decisione del Presidente Americano Trump di impedire l’ingresso al paese a persone provenienti da 7 paesi a maggioranza islamica scrive (trad. dall inglese di Rosanna Sirignano):

“Mio padre emigrò negli Stati Uniti quando aveva trent’anni, spinto dal desiderio di creare opportunità per se stesso e per noi, suoi figli. Aveva sete del “sogno americano”.
Era fra i primi dieci migliori laureati della Siria e così riuscì a conseguire un dottorato di ricerca in Ingegneria Sismica in Giappone. Ha lavorato senza sosta per assicurarsi di dare il meglio di se stesso, e, infatti, anni dopo, ha fondato la sua azienda.

Se mio padre avesse voluto realizzare il suo progetto negli Stati Uniti oggi, non avrebbe potuto, perché l’ingresso gli sarebbe stato negato a causa delle sue origini siriane.

Sento delle scuse. Persone cercano di convincermi che si preoccupano, che esprimono il proprio voto solo a causa di “credenze religiose simili, ma non preoccuparti, Huda, io sostengo te e il tuo diritto ad esistere.”

Smettetela con queste stronzate. La decisione consapevole di difendere tutto ciò, di accettare un simile comportamento anti-costituzionale e incomprensibile, ignorante.

Scusatemi se includo l’etnia in questo discorso, dopo anni che gli americani bianchi si aspettano da me che rappresenti tutti i siriani e i musulmani. Il paese dove quasi il 50% delle persone non ha mai incontrato un musulmano, ora è così sicuro che siamo tutti pericolosi. Il paese dove dopo ogni conversazione si conclude con “Oh! Ma dopo tutto non siamo così diversi!” Sorpresa.

Sono siriana, americana, musulmana, danese e quant’altro e tutti questi aspetti non entrano in conflitto. Siamo nel 2017 ma le pareti sono più spesse e la paura scorre più profondamente da tutti i lati. Le etichette sono costruite per creare divisioni.

Pensate fuori dagli schemi. Entrate in contatto con l’umanità.”

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La mia Aleppo (Giuliana)

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Il pianeta Venere identificato nel pantheon aramaico anticocon le divinità lunari santa torcia che splende nel cielo una culla di civiltà antichissima che non sarà mai cancellata Haleb ma il chiarore della stella la condurrà verso un’alba di pache o almeno speriamo… ”

(Giuliana Cacciapuoti)