La mia Siria – poesia di Francesca Scalinci

Una poesia dal titolo familiare, di seguito la traduzione italiana di “My Syria” di Francesca Scalinci, a seguire l’originale inglese e la traduzione araba a cura di Yassin Al-Haj Saleh)

 

La mia Siria 

La mia Siria non è

solo un luogo sulla mappa

Né  nomi di posti visti solo in sogno

Daraa, Dimashq, Homs, Hama, Halab

O meglio, la mia Siria

È  su una mappa

Di dolore invisibile

Che si stende da oceano a oceano

Da polo a polo

La mia Siria

Si rialza Sempre

Raccoglie la dignità

Ingoia gli affanni

E si mette a  lavoro

La mia Siria è il sorriso

Di ogni amico stretto tra le braccia

Brandelli di cuore qua e là sparsi

Familiari scomparsi

Come arti fantasma doloranti

La mia Siria dice: Alhamdulillah

Sia lodato Iddio

Sebbene dal cielo

Piova sangue

E non più pioggia

Così grave il dolore

Da crepare le ossa e spezzarle

Una ad una finché nulla rimane

La mia Siria

è negli occhi di chi in ogni angolo di questa terra

ricostruisce la vita mattone su mattone

Lacrima su lacrima su lacrima

La mia Siria piange e muore inascoltata

fiore schiacciato dal peso di un silenzio codardo,

Voce soffocata di chi più non è

O più non si trova

La voce del prigioniero

Ma la mia Siria è lotta per libertà, dignità e giustizia

E la mia Siria sorride e dice:

Le vedi queste ceneri?

Da queste ceneri risorgerò

Da queste ceneri rivivrò

Con queste ceneri chi sono

Ti mostrerò

Poi mi guarda negli occhi e dice:

Lo vedi questo sangue?

Lo vedi?

Questo sangue che mi inzuppa vesti, anima e mani?

Ne farò oro e gelsomino

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L’autrice Francesca Scalinci, è dottore di ricerca in Studi anglo-americani (Università Ca’ Foscari di Venezia),  in studi postcoloniali e letterature anglofone. A lungo si è occupata di Caraibi per passare negli ultimi anni, catturata quasi da un richiamo ancestrale, al Mediterraneo. Ha scritto di narrativa di “guerra” di Cipro,  Libano e  Palestina. Oltre alle pubblicazioni accademiche, scrive racconti per bambini e ragazzi, e poesie  quasi sempre in inglese. Nel 2013, inizialmente attraverso la strada del volontariato, si avvicina alla Siria. “Ogni siriano che conoscevo faceva crescere in me l’amore e il rispetto per questo popolo. Ho sentito dunque la necessità di conoscere più approfonditamente la storia siriana, passando presto dal volontariato all’attivismo.”Io, che in Siria non sono mai stata, escluso il Jawlan occupato, amo profondamente questo paese e questo popolo.” racconta Francesca. Al momento è impegnata in un progetto di scrittura, ancora in nuce, riguardante proprio la Siria. Alla Siria sono anche dedicate due poesie a cui tengo molto: “I Am No Syrian Woman” e appunto “My Syria” (di seguito il testo originale inglese e la traduzione araba di Yassin Al-Haj Saleh)

My Syria 
My Syria is not
Just a place on the map
It’s not just the name of places
I’ve only seen in my dreams
Daraa, Dimashq, Homs, Hama,Halab
My Syria lies on a map
Of invisible pain
Stretching from ocean to ocean
From pole to pole
My Syria
Always gets back on her feet
She collects her dignity
Swallows her sorrows
And goes back to work
My Syria is the smile
Of every friend
I’ve held in my arms
Heart scattered around
Missing family members
Like aching phantom limbs
My Syria says
Alhamdulillah, praise be to God
Even when the sky’s dripping blood
Instead of rain
And so unbearable is the pain
That bones start cracking
One after the other
Until nothing whole is left
My Syria’s in the eyes of those who
In every corner of the world
Rebuild life
Brick by brick by brick
Tear after tear after tear
My Syria dies and cries
But goes unheard
It’s a flower crushed
Under the numbing silence
Of the coward
It’s the silenced voice of those
Who are no more
Or are nowhere to be found
But my Syria is struggle
For freedom, dignity and justice
And my Syria smiles and says
From these ashes I will rise
From these ashes I will live again
My Syria says, I will show you who I am
My Syria looks me in the eyes and says
You see this blood,
This blood covering my clothes?
I will turn it into jasmine and gold

سوريتي

سوريتي ليست مجرد مكان على الخريطة
ليست مجرد اسم لأمكنة
رأيتها في أحلامي: درعا، دمشق، حمص، حماه، حلب
سوريتي هي هناك على خريطة من الألم غير المرئي
تمتد من المحيط إلى المحيط
من القطب إلى القطب

سوريتي تقف على قدميها بعد أن تقع
تسترجع كرامتها
تبتلع أحزانها
وتعود إلى العمل
سوريتي هي ابتسامة كل صديق عانقته بين ذراعي
قلبه متناثر هنا وهناك
بين أفراد العائلة المفقودين
مثل وجع باقٍ لأطراف مبتورة
سوريتي تقول: الحمد لله!
حتى حين تقطر السماء دماً بدل المطر
وحين الألم لا يطاق
وحين تشرع العظام تطقطق
واحداً بعد الآخر
حتى لا يبقى بينها ما هو سليم

سوريتي هناك في عيون أولئك الذين في كل أصقاع العالم
يعيدون بناء الحياة
لبنة بعد لبنة بعد لبنة
دمعة بعد دمعة بعد دمعة

سوريتي تموت وتصرخ
لكن صوت صراخها لا يُسمع
إنها زهرة سحقت
تحت ثقل صمت مخدر
صمت الجبناء
إنها صوت أولئك الذين لم يعد يمكن العثور عليهم
لم يعودوا في أي مكان

لكن سوريتي هي كفاحٌ من أجل الحرية، الكرامة، والعدالة

سوريتي تبتسم وتقول
سوف أنهض من وسط هذا الرماد
ومن وسط هذا الرماد سأنبعث
سوريتي تقول: سوف أريكم من أنا

سوريتي تنظر إلي في العينين مباشرة، وتقول: أترين هذا الدم
الذي يغطي ثيابي؟
سوف أجعل منه ياسميناً وذهبا

La mia Siria – Il libro

A fine gennaio esce il libro “La mia Siria – l’umanità che resiste” pubblicato da Villaggio Maori Edizioni. Vi racconto com’è nato…

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Ho aperto il blog nel 2013, mi ero da poco trasferita in Germania e l’ideale della fantastica vita all’estero si era ormai sgretolato. Mi mancava l’Italia e la Siria mi sembrava più lontana da lassù. Soprattutto non riuscivo a trovare spazio per manifestare la mia solidarietà, come facevo in Italia. Ho aperto il blog, perché avevo paura di dimenticarla e nel terrore che la Siria fosse ricordata solo per gli orrori della guerra. Inizialmente ho pubblicato qualche ricordo, e poi ho invitato anche qualche amico a scrivere della sua Siria. Con il passare del tempo, però, non riuscivo più a guardare le immagini e a leggere le notizie che provenivano da quei giornalisti e persone comuni che coraggiosamente si sforzavano di documentare la verità. Dall’altro lato assistevo impotente al silenzio, l’indifferenza e la gravissima disinformazione che i media più seguiti diffondevano. Così ho mollato, ho cercato di dimenticare la Siria e vivere la mia vita normalmente, tanto non avrei potuto cambiare nulla. Un giorno, nel 2015, mi trovavo in un albergo in Puglia. La receptionist per caso finì sul mio blog e mi chiese: “sei tu l’autrice di questo?” e mi mostro lo schermo del suo smartphone aperto su questa pagina. “Sì” risposi sorpresa, “ma non lo curo tanto”. “Che bello, io lo leggo spesso, ma dov’è il libro?” Ecco mai avrei pensato che due anni dopo sarebbe arrivato quel giorno. Intanto la Siria mi inseguiva tra le strade di Mannheim e Heidelberg, dove quasi ogni giorno qualche siriano o siriana mi chiedeva informazioni. Mi inseguiva attraverso i ragazzi sopravvissuti alle prigioni del regime, ai sorrisi dei bambini del campo profughi Patrick Henry Village. Poi un giorno Natasha Puglisi di Villaggio Maori Edizioni capita sul mio blog e mi propone di scrivere un libro su “la mia Siria”. Insomma certi luoghi ti entrano dentro e non ti abbandonano mai… Da quel giorno è cominciato il mio viaggio nel passato, nel presente e nel futuro per raccontare la Siria, attraverso le persone che l’hanno conosciuta prima e dopo il disastro umanitario. Non è stato semplice, e spesso ho pensato di mollare, ma allo stesso tempo mi ha rimesso in pace con me stessa, con il mio dolore. Ha segnato l’inizio di nuove e preziose relazioni, perché in fondo la Siria per me sono le persone che me la ricordano, è l’umanità che resiste nonostante tutto.

Scheda del libro qui:

http://www.villaggiomaori.com/store/Rosanna-Sirignano-La-mia-Siria-p100045194

Bari Porta del Mediterraneo con Aeham Ahmad e Radiodervish

Bari 15 dicembre 2017

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È passato circa un anno dal suo concerto ad Heidelberg (vedi qui: http://cometarossa.org/2016/12/aeham-ahmad/) quando scopro con piacere che suonerà con una delle mie band preferite, i Radiodervish, in occasione della terza edizione del Festival Centro del Mundo.

Io e la mia compagna di viaggio arriviamo un paio d’ore prima l’inizio del concerto, facciamo un giro per il centro, cerchiamo un luogo, ma aspettiamo di incontrare tre persone anziane che chiacchierano in dialetto pugliese per chiedere la direzione giusta. “Guardate ragazze se andate di qui ve lo trovate di fronte”, ci indica uno dei tre. Così con calma, accompagnate dal vento freddo che si insinua nei vicoli giungiamo al mare buio, calmo, e Bari diventa la Porta che divide il grigiore e i rumori di una città mediterranea dai colori e le voci del mercato: il giallo, il rosso e il verde delle spezie, il blu, il viola, il magenta delle stoffe, la musica che accompagna il lavoro dei venditori, le voci di chi si racconta, di chi vende e acquista al miglior prezzo. La Porta che segna il confine tra la mente e il cuore, sempre in comunicazione, perché è una Porta che non si chiude e non si apre. E’ un arco che si erge trionfante, come la Sublime Porta, attraversata da forestieri accolti con un tè alla corte del sultano…

 

Abbiamo riservato un posto in prima fila per il concerto di Aeham Ahmad e Radiodervish, per non perdere neanche un’emozione. Attendiamo impaziente il suo ingresso, entra toccandosi la testa per ringraziare, come per dire ‘ala rasi, l’espressione araba che letteralmente significa “sulla testa” usata come segno di disponibilità e apertura. Le sue mani scivolano sul pianoforte con potenza, mentre immagini della sua Siria distrutta scorrono alle sue spalle. Tra una canzone e l’altra ci racconta della Siria, della Palestina, della difficile condizione di rifugiato. “Io uso la musica come arma contro la guerra. Lo so che non può cambiare niente ma almeno può far aprire la mente, può far incontrare nuovi mondi, persone diverse senza muoversi da casa propria.” Per tutti noi forse essere lì è un po’ come manifestare la nostra solidarietà alla Palestina, alla Siria, a tutti i popoli oppressi, per augurarci libertà e giustizia, frasi ridondanti, che abbiamo sentito mille volte eppure ancora abbiamo bisogno di ribadire. Nabil Bey dei Radiodervish ricorda che il Festival quest’ anno dedicato alle nostre identità fluide, è stato ideato per riflettere. “Chi sono io? Nato in Libano da famiglia palestinese, ma sono anche un po’ italiano o prendete Aeham, ora anche un po’ tedesco.” Ci si augura un’Italia libera dal pregiudizio, curiosa, accogliente, dove la diversità possa essere fonte di arricchimento e non minaccia. Il concerto è un invito a guardarsi dentro per scoprire chi realmente siamo lontani da ogni definizione. È inoltre un invito alla consapevolezza, alla coscienza politica e così si menziona la recente dichiarazione di Trump su Gerusalemme, inaccettabile considerando i delicati equilibri della regione, messi in pericolo da semplici parole. “Tanto a lui che importa” commenta Aeham “lui non vive nel West Bank”. Nabil invita ad un presidio di solidarietà a Bari che si terrà due giorni dopo, poi riprendono le noti delicate di una musica mediterranea senza tempo, che vorrei non finisse mai….

 

“Siria, tra realtà e propaganda”, la Napoli che non dimentica.

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Venerdì 27 ottobre si è svolta a Napoli, presso la sede della Federazione Universitaria Cattolici Italiani (FUCI) la conferenza “Siria, tra realtà e propaganda” organizzata dal Dott. Sami Haddad in collaborazione con Città della gioia, ONLUS.  Milena Annunziata (FUCI) e Gabriella Butera (Città della gioia) salutano il pubblico e gli ospiti ricordando di come i siriani, che nel 2011, sono scesi in piazza pacificamente ci hanno ricordato della rivoluzione culturale, di cui tutti avremmo bisogno in un mondo dove la democrazia va sgretolandosi. La conferenza si apre con la giovane laureata in Relazioni Culturali e sociali nel Mediterraneo, Marianna Barberio, che in modo chiaro e conciso delinea la storia degli Assad dal colpo di stato del 1971 a oggi, ponendo particolare enfasi sul controllo serrato sulla stampa, usata dal regime come maggiore strumento di propaganda. Il dott. Sami Haddad, docente di arabo siriano, in Italia dal 1976, in continuità con la relazione precedente ripercorre la tappe fondamentali della rivoluzione trasformatasi poi nella guerra tra potenze mondiali, che sta dilaniando la Siria da sette lunghi anni. “Negli anni della scuola sognavamo una città ideale fatta di scambio di conoscenza, democrazia, apertura, invece in Siria è stato fondato lo Stato del terrore, basato sulla repressione sistematica di ogni forma di dissenso.” Segue l’intervento del giovane laureato Marco De Falco, che ha dedicato le sue tesi di triennale e magistrale alla Siria. Con grande chiarezza delinea la situazione geopolitica del paese, facendo luce sulla complicata rete di interessi economici e politici delle potenze internazionali come Russia, Iran, Stati Uniti sulla regione. Si accenna anche alla tanto dibattuta questione del Kurdistan e in questa matassa difficile da sbrogliare sembra non essere facile schierarsi. Segue l’intervento di Giuseppe Reccia che ci parla dello scrittore Abdallah Maksur, scrittore siriano emigrato in Belgio, autore del primo romanzo-reportage dedicato alla rivoluzione. Conclude l’architetto e docente di arabo Alma Salem: “I monumenti senza le persone non contano nulla. Che senso ha piangere per palazzi storici, reperti archeologici e monumenti distrutti senza ricordare le persone che li hanno costruiti, il popolo che ha costruito la storia e la cultura del paese? Si parla di Patrimonio culturale dell’umanità, ma questa umanità agli occhi di molti è invisibile.” Forse la parte giusta è proprio l’umanità che resiste in Siria, nonostante tutto: i volontari dei Caschi Bianchi, ad esempio, che si recano nelle zone bombardate per recuperare corpi, pur sapendo che potrebbero essere bombardati di nuovo. Tutte le persone che per amore di un’idea, per la speranza di un cambiamento, per il bene comune sono stati rapiti, torturati e brutalmente uccisi. Oggi sembra svanire la speranza di un futuro radioso per la Siria, vergognosamente e ingiustamente dimenticata da molti.  A Napoli invece ci siamo seduti per ricordare, per riflettere e per comprendere. La bandiera della rivoluzione appesa al tavolo dei relatori, con la scritta “Siria Libera” sembra già un cimelio, un ricordo di una rivoluzione voluta da gruppi di diversi orientamenti politici, diverse visioni del mondo, ma con scopi comuni : la creazione di uno spazio democratico, dove si possa dare voce alle diverse componenti della società siriana, uno società equa e libera. Quella bandiera, dunque, non rappresenta una fazione, piuttosto che un’altra, rappresenta la società civile siriana, con cui purtroppo l’opinione pubblica non ha solidarizzato.

“Last Men in Aleppo”: In the heart of the conflict

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I was going to interview him, but the moment I met him, I did not need to ask any questions. A quick handshake, a few words introducing myself met with an intense gaze – he told me everything. This was my brief interaction with director Firas Fayyad, the mastermind behind the internationally-recognized film, Last Men in Aleppo.

“The screening tonight is sold out!”

The words glared at me jeeringly. I felt my heart sink quickly, disappointment rising. I had made plans to watch the exclusive screening and discussion of Last Men in Aleppo. The film was created by Firas Fayyad, a Syrian who himself had been tortured in regime prisons multiple times, simply for telling the truth.

My friend Huda (an American with Syrian and Danish origins) refused to give up. Within minutes, she found a screening in a nearby town and booked our tickets for a showing just two hours later. We had found access.

I rushed to catch the train, worried about getting to the movie in time. Sure enough, despite the city being only 20 kilometers away by car, the train took over 40 minutes – and I was fined 60 Euros for a misunderstanding over the train ticket. I had no time to argue. Belting it to the theater, I finally arrived, albeit 25 minutes after the film started.

Due to our late arrival, I began to doubt that it was worth going to the film. To be honest, I was afraid: I did not really want to watch the movie, to once again witness the horrors of Syria. Huda refused to turn away so soon. We had come so far, we had to attend.

Once I sat down, I let the images flow in front of me indifferently. My mind was elsewhere, preoccupied by the fine, devising tricks to avoid paying for it. The explosion of a bomb made me wince for a moment, bringing me back to the moment. In front of me, I saw children of Aleppo during a moment of ceasefire, happy-go-lucky kids on a playground with wide smiles that opened my heart to their pain. Rivers of tears began to flow from my tired eyes, as they are running right now while I write, as I attempt to share my emotions.

I let them moisten my face and flow freely, covering my mouth with a tissue, as to not disturb the audience. I choked a cry of pain, dismay, terror: a mixture that I have been carrying with me for six years and that I hope will never leave me. Through it I feel close to the Syrian people who had opened their arms to me, the Syria where I found myself. The pain I feel keeps my humanity alive.

At the end of thdsc03567e film, the lights turned on, leading to a conversation about the movie with Firas Fayyad. For me, there was nothing to be said. The movie had only reaffirmed the need to feel: to stop and cry all together for Syria, for humanity.

The most recurrent word in Firas Fayyad said was “human beings,” emphasizing the human. It is this that he attempts to show with his extraordinary documentary: that in Aleppo, in spite of the terrible situation, humanity still exists. Hope still prevails. The film shows this through the work of the White Helmets, presented as men who chose to stay in the land in which they were born and which they loved, a city that was slowly turning into rubble from nonstop cruelty, leaving the men to extract bodies both dead and alive.

The director is keen to point out that this is not a film about politics, but about people, the daily tragedies to which they have grown accustomed, the despair, the devastating pain and, above all, the love they continue to carry for life and for their land.

Amidst questions about the soundtrack, characters, and production, a man from Aleppo thanked Firas for having shown the truth, for having transferred the heart and soul of the people through the film. It was a brief break; quickly enough, the audience returned to commenting about the technical aspects of filming or about the political situation in Syria. A sense of discomfort and unease unfolded within me. Where was the heart of these people, the connection to humanity?

The question was irrational, for I know that we cannot ever leave aside the political dimension, yet despite this, I could not help but feel a frustration. In that moment, I wanted everyone to be silent, to realize that this film had given us a valuable opportunity: the chance to stop for a moment and cry for Syria, to grieve for the injustice and suffering happening not very far from us.dsc03565

Perhaps the most impactful scene was towards the end of the film, when one of the central characters of the film, Khaled, had been killed during a rescue mission. Firas, however, did not linger on the fact, aware of the role of the martyr in his country. Instead, he assured us: “Khalid’s wife just had a baby called like his father, Khaled.” Pulling up a photo on his phone, Firas showed us the baby boy, a beautiful child dressed in a beige onesie. “Now Khaled is back to life.”

Despite the devastation that Firas witnessed and conveyed through his film, across his attempts to touch upon humanity, amidst all the death he was surrounded by, life goes on, positively influenced by the little things. We just need to take a moment to be aware of the power carried in humanity.

edited by Huda Alawa

“Last men in Aleppo”- nel cuore del conflitto

380712Mannheim, 5.03.2017 Avevo intenzione di intervistarlo, ma poi non avuto bisogno di porre alcuna domanda: una rapida stretta di mano, poche parole per presentarmi, uno sguardo intenso, le sue cicatrici sono state sufficienti. Ripensando alle sue parole sul potere dello story telling, vi racconto la mia esperienza con il regista Firas Fayyad e il suo ultimo film Last Men in Aleppo.

Sold out per la proiezione di Last Men in Aleppo di Firas Fayyad, il regista che nel 2011 e´ stato torturato nelle prigioni siriane per aver raccontato la verità. Non ci scoraggiamo io e Huda, americana di origini siriane e danesi, impegnata dal 2013 per i rifugiati siriani. Ci sarà una proiezione non lontano dalla nostra Heidelberg. Treno in ritardo, per lo più a causa di un malinteso mi becco una multa di 60 euro. Il film è iniziato da ormai 25 minuti e io penso che forse non vale la pena entrare. Avevo paura, questa e´ la verità: questo film non lo volevo vedere, così, una volta seduta, ho lasciato che le immagini scorressero davanti ai miei occhi indifferenti, la mente altrove pensava alla multa ed escogitava stratagemmi per evitare di pagarla. Lo scoppio di una bomba mi ha fatto sussultare per un attimo, ma sono stati loro, i bambini di Aleppo che si concedevano momenti di felicità in un parco giochi, sono stati i loro sorrisi ad aprire il mio cuore al dolore. Fiumi di lacrime hanno cominciato a sgorgare dai miei occhi stanchi, come corrono in questo momento mentre scrivo, cercando di donarvi le mie emozioni. Ho lasciato che inumidissero il mio viso e scorressero libere, poi sono stata costretta a coprirmi la bocca con un fazzoletto, per non disturbare il pubblico. Soffocavo un grido di dolore, di sgomento, di terrore che da sei anni porto dentro di me e che spero non mi abbandoni mai, perché è così che mi sento vicina alla Siria, perché è così che mantengo viva la mia umanità. Alla fine del film ritorna la luce, si apre il dibattito, anche se per me non c’era nulla da dire, c’era solo da fermarsi e piangere, tutti insieme per la Siria, per l’umanità. La parola più ricorrente nel discorso di Firas Fayyad è appunto “human beings”, essere umani, perché ciò che lui mostra con il suo straordinario documentario è che ad Aleppo, nonostante tutto, l’umanità (r)esiste. Lo mostra attraverso l’operato dei Caschi Bianchi, presentati come uomini cha hanno scelto di restare nella terra dove sono cresciuti e che hanno amato per estrarre corpi sia morti che vivi, dalle macerie di una città distrutta dall’insensatezza, dalla crudeltà. Il regista ci tiene a precisare che qdsc03565uesto non è un film sulla politica, ma sulle persone, sulla tragedia quotidiana, sulla disperazione, sul devastante dolore e soprattutto sull’amore per la vita e per la propria terra. Tra una domanda e l’altra sulla scelta delle musiche e dei protagonisti, sulla produzione interviene un aleppino che ringrazia Firas per aver mostrato la verità, confessando di aver guardato il film con il cuore e l’anima. Ricominciano commenti sugli aspetti tecnici e poi domande sulla situazione politica in Siria e allora una punta di fastidio e disagio si dipana dentro di me. Dov’è il cuore di questa gente? Domanda irrazionale, ne sono ben consapevole, perchè chiaramente non si può lasciare da parte la dimensione politica. In quel momento, però, avrei voluto che tutti tacessero e si rendessero conto che quell’evento ci dava una preziosa occasione: fermarsi per un attimo e piangere per la Siria, piangere e addolorarsi per quanta ingiustizia e sofferenza ci sono non molto lontano da noi. La maggior parte dei volontari mostrati nel film hanno in seguito perso la vita: “La moglie di uno di loro ha appena avuto un bambino che ha chiamato come suo padre, Khaled” e Firas ci mostra la sua foto aggiungendo “ora Khaled è di nuovo in vita”. Nonostante tutto la vita continua e la vita è fatta di tante piccole cose, come pesciolini rossi comprati al mercato o una partita di calcio.”

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La mia Aleppo (Giuliana)

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Il pianeta Venere identificato nel pantheon aramaico anticocon le divinità lunari santa torcia che splende nel cielo una culla di civiltà antichissima che non sarà mai cancellata Haleb ma il chiarore della stella la condurrà verso un’alba di pache o almeno speriamo… ”

(Giuliana Cacciapuoti)

Il caffè arabo (parte 2)

Di seguito la seconda parte del racconto “Il caffè arabo” scritto nel 2008, ispirato al mio viaggio in Tunisia… Buona lettura e non esitate a lasciare i vostri commenti!

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Prima parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2016/04/03/il-caffe-arabo-parte-1/

Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza e il fervore di una giovane alla scoperta di nuove eccitanti esperienze. Approfondire la conoscenza dell’arabo era stato solo un pretesto per andare via da lui. Ero arrivata con la speranza di trovare un lavoro e stabilirmi lì per un po’ di tempo, ma naturalmente le fantasie difficilmente si tramutano in realtà.                                                                                                                                     Ero sicura che fin lì non mi avrebbe seguito per pungermi ancora, per tormentarmi con il suo incessante sibilare. Per un po’ ero davvero riuscita a seminarlo, a non farmi scovare, ma poi lui mi aveva trovata. Così aveva avvolto la mia mente nel suo mantello scuro, aveva schiacciato il mio corpo sotto i suoi pesanti stivali, aveva stretto il mio cuore nelle sue mani sottili e ossute e mi aveva guardato fisso con i suoi occhi gelidi. Per un momento aveva congelato ogni mia sensazione sotto il suo sguardo penetrante e un attimo dopo mi aveva abbandonata lì per terra, stordita, frastornata.                                                                    Inizialmente credevo si trattasse solo di una mia stupida paura e di una falsa impressione dettata dalla mia immaginazione, ma con il passare dei giorni avevo capito che era davvero tornato. Io ero disarmata, non avevo più difese contro di lui, non potevo combatterlo. Avevo necessità di formare una forte alleanza che mi aiutasse ad annientarlo ma non avevo nessuno, né in Italia né a Tunisi né in nessun altro luogo. Avevo passato in rassegna tutti i parenti, amici e conoscenti e avevo ormai realizzato che nessuno possedeva l’attitudine giusta per combattere al mio fianco. Non avrebbero capito, perché io non avevo parole per descrivere il mio nemico, non avevo mezzi per mostrarlo agli altri.

Qualcosa nell’aria aveva un sapore che non apparteneva né alla terra né al mare, era un profumo già sentito. Mi sollevai da terra e guardai intorno per capire da dove potesse provenire quel familiare odore. Non c’era nessuno a parte me, ma poco distante scorsi qualcosa simile ad un ristorante. Chiusi gli occhi e cercai di decifrare la fragranza a cui ben presto diedi il nome: caffè.                                                                                                               Raccolsi la mia borsa e il mio telo e cercai con lo sguardo una via per giungere al ristorante. Con molta cautela discesi giù per gli scogli, così finalmente raggiunsi questo singolare luogo per la ristorazione posto praticamente sul mare. Un cameriere mi mostrò i suoi denti bianchi, che contrastavano con il colore scuro della sua pelle, in un cordiale sorriso. Mi invitò ad entrare e io accettai ben volentieri.                                                                                L’odore del caffè si faceva sempre più intenso al  mio procedere all’interno della sala delimitata da un chiosco in legno con il tetto di paglia. In fondo c’era una sorta di bancone da bar, dietro al quale un uomo stava per preparare il caffè alla maniera tradizionale. Osservai il lento procedimento con molta attenzione. Prima di tutto l’uomo riempì d’acqua il particolare bollitore dal lungo manico, l’ ibriq, in Tunisia denominato da alcuni con una parola che suona come “zazua”. Con un mortaio di pietra trasformò una manciata di chicchi di caffè in polvere fine. Poi, estrasse da un cassetto una capsula di cardamomo che con un delicato movimento ruppe facendone uscire i piccoli semi. Pestò anche quelli  insieme al caffè, aggiungendo un pizzico di zafferano dall’eccentrico colore giallo. Mescolò il composto all’acqua contenuta nell’ibriq, che pose sul fuoco aspettando l’ebollizione.  Non riuscivo a staccare gli occhi da quel delizioso pentolino di rame, decorato con delle raffinate incisioni. Cercavo di identificare le forme e le lettere che ornavano quello strano utensile da cucina, e presto vidi dei fiori, degli alberi, addirittura degli uccelli, non distinguendo più la fantasia dalla realtà. Quando l’acqua bollì l’uomo tolse l’ibriq dal fuoco e io mi preparai subito ad assaggiare un po’ di quel caffè, pensando che fosse pronto. Al contrario, bisognava aspettare che si freddasse  per poi ripetere l’operazione altre due volte. Restai lì seduta ad attendere che il lungo procedimento terminasse e intanto la mia mente intraprendeva viaggi in luoghi misteriosi e lontani.                                       All’improvviso l’uomo diede un colpo secco al bollitore che fece precipitare la polvere di caffè sul fondo e riportò me sulla terra.

“Vuole?”- mi chiese in arabo. Annuii con la testa e dopo poco mi porse una tazzina di vetro arancione che vuotai lentamente per non scottarmi.

Decisi di restare lì per pranzo così mi accomodai ad un tavolo posto su una piattaforma sul mare. Diedi  un’occhiata al menù, accorgendomi ben presto degli elevati prezzi attribuiti alle pietanze. Pensai che comunque valesse la pena gustare un pesce alla brace con quella vista meravigliosa e soprattutto a due passi dal mare. C’erano pochi turisti, soprattutto tedeschi, dunque poco rumorosi e per niente fastidiosi.                                                            Chiusi gli occhi e feci penetrare l’aria nei miei polmoni con una profonda inspirazione e la ributtai fuori con un soffio. Se avessi potuto allontanare lui come l’aria per cui bastava un semplice soffio, mi sarei sentita certamente più sollevata. Non era così purtroppo: lui aveva deciso di permanere nel mio corpo, nella mia  mente, nel mio cuore forse per degli anni o magari per sempre. L’unica soluzione sarebbe stata quella di incontrarlo, avvicinarmi a lui gradualmente, imparare a conoscerlo per non averne più il terrore.      Non potevo continuare a gettare i miei pesi sulle persone che mi volevano bene, nauseandole con i miei pensieri inutili e contorti. Era giunto il tempo di affrontare da sola il mio nemico, senza armi senza difese, senza alleati? Non lo sapevo; ero solo invasa da un’ oscura e soffocante angoscia.

“Posso sedere qui?”- mi chiese una voce maschile in perfetto arabo classico. Alzai lo sguardo e scorsi una figura alta e magra, di carnagione piuttosto chiara per essere un tunisino.

“Chi è lei?” – chiesi

“Mi chiamo Ilias, Ilias al-Madi”.

Fui molto sorpresa di quella curiosa coincidenza tanto che guardai meglio il mio interlocutore per scorgere tratti familiari, ma decisamente si trattava di un’altra persona. Feci cenno ad Ilias “secondo” di accomodarsi e chiesi precisazioni sul significato del suo cognome.

“Al-Madi significa “passato”.

“Passato”… –sospirai- “è una brutta parola”.

“Posso chiederle il perché?”- domandò Ilias “secondo”.

“Non dovrebbe chiedermi prima il nome?”

“È stata lei a introdurre l’argomento prima ancora di presentarsi…”-puntualizzò.

“Ha ragione”- affermai rassegnata.

“Allora signorina, quando riparte per l’Italia?”- mi chiese in un perfetto italiano.

“E lei come fa a sapere che sono italiana?”- gli chiesi un po’ sorpresa e un po’ infastidita dal mio accento traditore.

“Lo so e basta”.

“E lei di dov’è?”

“Dal luogo da cui proviene lei, signorina.”

“Mi sta prendendo in giro?”- domandai con tono scettico.

“No, davvero.”

“E come mai è qui?”

“Mi ci hai portato lei, signorina.”

Rimasi per un momento in silenzio a scrutare il mio interlocutore mentre molte domande si accalcavano nella mia mente. La mia ragione suggeriva di non credere alle sue parole, ma qualcosa di indefinibile dentro di me si fidava di quell’uomo.

“Secondo me dovrebbe partire”- Ilias ruppe il silenzio.

“E lei come lo sa? Non mi conosce neppure”- precisai con tono inspiegabilmente arrabbiato.

“Si calmi, volevo solo darle un consiglio, per il suo bene”- e Ilias sfoggiò uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto sul volto di un uomo. Purtroppo però la sua espressione conciliante non ebbe nessun effetto sul mio stato d’animo ormai in via di agitazione.

“E tu come lo sai cosa è bene e cosa è male per me?”

“Forse hai ragione io non lo so, ma tu lo sai?”

Quella domanda accrebbe l’ inquietudine nel mio petto che salì su per la gola formando un nodo stretto tanto da bloccare le mie corde vocali per qualche minuto. Restai in silenzio con gli occhi bassi sul piatto, che mi era stato appena servito.                                                           Ilias avvicinò una delle sue mani alla mia fronte che lambì con estrema delicatezza, quasi fosse un prezioso e delicato oggetto.  Quella sensuale carezza, che provocava in me una sensazione di piacere e fastidio allo stesso tempo, fece aumentare la temperatura del mio corpo. Con un movimento istantaneo allontanai la sua mano dalla parte superiore del  mio viso. Lo guardai con gli occhi che ormai stentavano a contenere le lacrime e scappai via.

Ilias al-Madi cingeva il mio corpo con le sue lunghe braccia, stringendo il mio viso sul suo caldo e morbido petto che accoglieva le mie lacrime con affetto quasi paterno. Era la prima volta che qualcuno non mi lasciava scappare da sola. Tutti avevano sempre creduto che il motivo delle mie fughe fosse la ricerca della solitudine. Io in realtà scappavo per essere inseguita, ma fino ad allora nessuno l’aveva mai capito.                                                                Ero arrivata in Tunisia un mese e mezzo prima con l’impazienza di allontanarmi dalla mia più grande fonte di angoscia, sicura che fino a lì non mi avrebbe seguito. Forse sarei dovuta partire per una meta più lontana o forse avrei dovuto semplicemente nascondermi in un posto sicuro per sfuggirgli.                                                                                                                      Ilias continuava a stringermi forte e a poco a poco le lacrime smettevano di inumidire il mio viso. Quando mi fui definitivamente calmata quell’uomo dolce e premuroso mi condusse su uno scoglio dove trascorremmo, seduti, l’intero pomeriggio.                               Mi raccontò di una bambina a cui non piacevano le bambole ma solo i libri e le lunghe passeggiate in compagnia di suo padre. Mi raccontò di suo padre e della sua passione per le Mille e una notte, che narrava alla sua adorata figlia prima di andare a letto.         “Buonanotte, mia piccola Sherazade”-le diceva dopo averle donato un dolcissimo bacio sulla sua piccola fronte. Mi raccontò degli amici immaginari della piccola, che abitavano il suo piccolo mondo incantato, costruito con la massima cura. Mi raccontò del corpo esile ed elegante di sua madre, Lisa, e dei variopinti vestiti che nel tempo libero realizzava per la sua amata bambina. Mi raccontò della lunga assenza di Lisa per il suo grave male. Mi raccontò di un adolescente, che a differenza di molti altri, aveva trovato nella madre una fedele amica e consigliera.

“Aveva con sua madre numerosi interessi in comune dal cinema ai libri su cui spesso fingevano di litigare”- mi disse Ilias tenendo le mie mani strette nelle sue- L’amicizia è il collante di tutti i tipi di rapporti d’amore, era la filosofia della mamma. Tra loro c’era una perfetta sintonia e una buona dose d’amicizia, senza oltrepassare mai il varco dei ruoli madre-figlia. Quando voleva Lisa”- e al sentire quel nome un brivido gelido percorse la mia schiena- “sapeva anche essere severa. Avevano l’abitudine di prendere il caffè ogni giorno, spesso in compagnia di una vicina di casa o di un’amica o di chiunque si fosse trovato lì in quel momento. Lisa era una donna molto ospitale che mal sopportava la solitudine e molto socievole con tutti. Sherazade, al contrario era un’adolescente timida ed introversa, desiderosa di diventare bella e disinvolta come sua madre. Anche il padre provava ammirazione per la sua adorata moglie a cui cercava di strappare i segreti di quel rapporto meraviglioso che era riuscita a costruire con sua figlia. Non erano più i tempi delle passeggiate  e le favole, ora Sherazade non era più “la piccola”, era cresciuta e con lei la grinta e il fervore di un adolescente. Quando litigava con suo padre si dimenticava della sua timidezza e tirava fuori tutta l’ aggressività di una ragazza di quell’età. Gli scontri con Lisa erano più rari, ma più bellicosi. Riuscivano a dirsi le peggiori cattiverie quando litigavano quelle due!”- e Ilias rise teneramente, poi proseguì- “Sherazade era molto fiera della sua famiglia e soprattutto della sua mamma, il faro verso il quale guardare quando si sentiva smarrita. Un giorno, però, il caffè, il cinema, i litigi, le risate svanirono nel nulla; la luce del faro si spense e la piccola Sherazade sarebbe diventata grande da sola. Non fu facile placare la rabbia che prigioniera nel suo corpo tentava di fuggire. Avrebbe voluto spaccarsi la testa o ferirsi un braccio o qualsiasi cosa per permettere a quella sensazione infernale di abbandonare le sue membra, invece restò immobile a fissare il vuoto. Gli anni successivi……………”

“…trascorsero tra i sempre più frequenti e talvolta violenti litigi con suo padre, tra  gli eccessi dell’alcol e della droga e le numerose delusioni d’amore”- continuai io e aggiunsi:

“La conosco anch’io questa storia, Ilias al-Madi, permettimi di proseguire. Così Sherazade continuava a cercare qualcuno che potesse infondergli un po’ di quella forza di cui la madre era tanto carica, ma invano. Elemosinava affetto da chiunque fosse così caritatevole da offrirne. Poi aveva cominciato anche a vendere le poche cose che possedeva per comprare un po’ di calore. Era disposta ad ignorare i suoi bisogni a calpestare la sua dignità per ricevere un abbraccio, un bacio, una carezza o anche solo uno sguardo. Si accontentava anche di poche briciole nel tentativo di saziare quell’inappagabile fame d’amore. Quando la fame si sommò alla sete Sherazade mangiava e beveva tutto ciò che trovava sul suo camminò con avidità. Poi una volta s’imbatté in cibo avariato e acqua avvelenata e così cominciò la sua lenta disintossicazione. La sua cara mamma le aveva dato la possibilità di dimostrare di sapersela cavare anche senza il suo aiuto e lei era stata capace di distruggere persino quelle poche ma preziose…”- e la mia frase fu interrotta da un disperato pianto.

“Sherazade, non piangere, mia piccola Sherazade”- mi sussurrò piano Ilias accarezzandomi i capelli.

“Io sono come l’acqua del mare”-dissi tra le lacrime- “che insistente colpisce gli scogli e che poi torna indietro e nuovamente sbatte contro la roccia. Lei è testarda, come me, pensa di poterla rompere quella dura pietra. È ostinata non si arrende, continua ad infrangersi contro quei massi durissimi…”

“…e li corrode, molto lentamente, ma li corrode”- continuò Ilias- “non è testarda, è solo paziente.”

“Ma che senso ha?”

Ilias non rispose alla mia domanda. Mi prese per mano e mi condusse verso un complesso di scogli, indicandomene uno in particolare. Lo guardai attentamente e scorsi la figura di un cammello di cui si distinguevano perfettamente le gobbe e  la testa.

“Chi l’ha scolpito?”- chiesi ingenuamente

“L’acqua.”

Allora capii che senso aveva l’eterno infrangersi delle onde, capii il perché del cardamomo e lo zafferano nel caffè, capii che Ilias era il mio passato da cui da allora ho cominciato ad imparare.

Il caffè arabo (parte 1)

Di seguito la prima parte di un racconto scritto nel 2008, ispirato al mio viaggio in Tunisia (estate 2007), il primo paese arabo che ho visitato. Il racconto ha ottenuto un diploma di merito, benche´ fuori concorso, nell´ambito del concorso letterario “U.Fraccacreta” organizzato dal centro culturale internazionale “Luigi Einaudi” di San Severo.

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Il sole di Tunisi si faceva sentire con tutto il suo fervore sulla mia pelle ormai scura. Un lieve vento caldo s’insinuava nelle mie narici, nella mia bocca, tra i miei capelli. Avevo bisogno di bere acqua, ma quel giorno avevo dimenticato di portarla con me, così m’ incamminai per il chiosco più vicino.
Sentivo la testa pesante, le gambe gonfie, forse per il caldo, forse perché avevo riposato poco. Una sensazione di torpore e debolezza si diffuse nel mio corpo tanto che per qualche minuto non riuscii a proseguire il cammino. Fino ad allora il pregiudizio mi aveva impedito di bere caffè, ma quella mattina avevo urgenza di ritemprarmi e non potei rinunciarvi.
Mi fermai in uno di quei bar frequentato da soli uomini che dalle sei del mattino fumano narghilè e bevono limonata, capaci di eccitarsi alla vista di qualsiasi oggetto di genere femminile. Accompagnata dal sottofondo di risa e squallidi commenti di quei nullafacenti, aspettai il mio turno per ordinare e nell’attesa il mio sguardo non poté fare a meno di cadere sull’onnipresente immagine del presidente. Stavolta era raffigurato comodamente seduto su una poltrona a leggere il quotidiano, con tanto di occhiali da vista e una tazza di caffè accanto a lui.
– Un espresso, per favore- chiesi nel francese che mi ostinavo a non imparare.
Il barista raccolse dal bancone il cucchiaino che il signore accanto a me aveva appena usato per mescolare il suo caffè, lo bagnò sotto l’acqua corrente e lo pose nella mia tazzina.
I muscoli della mia faccia si contrassero in un’espressione tra la meraviglia e il disgusto.
– Con o senza zucchero?
– Senza, grazie.
Aveva un colore strano quel caffè e il bicchierino di vetro trasparente era pieno di calcare e non oso immaginare che altro. Sapevo che se davvero volevo vivere in quel posto dovevo abituarmi a questo genere di cose e c’era da farsi gli anticorpi, così mandai giù il caffè tanto velocemente da sentirne solo di sfuggita il sapore. Ero sicura che avesse un gusto pessimo, ma solo perché, per noi napoletani, il vero caffè  ce l’abbiamo solo noi, come la pizza, la pasta, il Vesuvio, la mozzarella, Capri, Sofia Loren…
Riposi il bicchierino di vetro sul bancone e chiesi una bottiglia d’acqua. Mi dissero che non l’avevano e io ne restai negativamente sorpresa.
Salutai e eccezionalmente nessuno mi chiese da dove venissi e se fossi sposata.
Trascinavo il mio corpo per le strade di Tunisi molto lentamente; la testa era ancora pesante e le palpebre faticavano a restare aperte. Pensai che quello che avevo appena bevuto non fosse vero caffè, altrimenti non si spiegava perché non avesse avuto alcun effetto tonificante sul mio corpo.
Ad ogni passo sentivo qualcosa di opprimente crescere dentro di me. Dapprima era come un nocciolo nella gola, poi come un piccolo sasso, poi ancora come una pietra che cresceva sempre di più spingendo contro il mio petto. Mi fermai, feci un lungo respiro e ingoiai quella poca saliva che non era stata ancora prosciugata dal caldo. Sentivo una sensazione di formicolio allo stomaco, come quella che si prova il primo giorno delle elementari, prima di un’interrogazione quando non sei sufficientemente preparato o il giorno dell’esame della patente di guida.
“Sarà stato quel dannato caffè in quel bicchiere sudicio..per non pensare a quel cucchiaino che chissà quante persone… oppure è lui che sta tornando?”
Cominciai a sudare e a respirare con fatica quando realizzai che la causa del mio malessere non era certo da attribuire a quel caffè tunisino, bensì era lui che era tornato a tormentarmi.
In una calda giornata di luglio sotto il cielo di Tunisi era tornato silenzioso, quieto. Per un po’ era rimasto in disparte ad osservare tutte le mie mosse così da scegliere il momento giusto per sferrare l’attacco.
Avevo bisogno di bere, così ripresi a camminare e finalmente raggiunsi il chiosco. Mandai giù quasi tutta l’acqua contenuta nella bottiglina, quasi nel tentativo di eliminare quell’orrenda sensazione che pervadeva il mio corpo. Per qualche minuto mi sentii meglio, ma poi un forte dolore allo stomaco diventava sempre più intenso. Cercai un posto dove sedermi, così entrai in un fast-food e occupai un tavolo. Immediatamente la cameriera mi chiese cosa ordinavo e le risposi che non gradivo nulla, ma anche nei fast-food di Tunisi non ci si può sedere senza consumare, così rassegnata chiesi un caffè.
Questa volta arrivò in una tazzina bianca come quelle che abbiamo in Italia. Dall’aspetto sembrava buono, ma io non avevo nessuna voglia di berlo. Insieme al caffè mi fu portata una piccola ciotola colma di zollette di zucchero.
Ne afferrai una, la rigirai tra le dita e pensai alla prima volta che vidi quel cubetto bianco.
Avevo cinque o sei anni, avevo accompagnato mio padre in ospedale a fare visita a mia madre. Come sempre aspettavo in sala d’attesa, di solito con un parente, ma quel giorno non era potuto venire nessuno. Passò di lì un’infermiera con il carrello porta vivande della colazione. Mi chiese che ci facevo lì tutta sola e io non le risposi, perché mio padre mi aveva insegnato a non parlare con gli sconosciuti. Allora, la graziosa infermiera mi sorrise e prese qualcosa da una scatolina e me le porse: una zolletta di zucchero appunto.
L’avevo scrutata così come stavo facendo quel giorno a Tunisi e poi colta da un’improvvisa paura l’avevo gettata con violenza a terra, quasi come se scottasse. Non solo mio padre mi aveva insegnato a non parlare con gli sconosciuti, ma anche a non accettare nulla da loro. In realtà quell’infermiera non mi sembrava cattiva, ma papà diceva pure di non fidarsi mai delle apparenze.
Sorridevo mentre pensavo a queste cose e continuavo a guardare la zolletta quasi fosse una pietra preziosa. Poi, cominciai a stringerla fra le mani, in modo sempre più forte che cominciò a sgretolarsi poco a poco. I granelli di zucchero finivano un po’ sul tavolo, un po’ nella tazza di caffè, che in questo modo era diventato per me imbevibile.
Presi un’altra zolletta e continuai lo stesso gioco. Via via frantumavo quei cubetti con più violenza e rabbia e ogni volta che se ne rompeva uno una lacrima rigava il mio viso.
– Tutto bene?- mi chiese la cameriera risvegliandomi dal sonno.
– Sì sì, grazie.
Mi asciugai il viso con il lembo della camicia e tentai di pulirmi le mani con un tovagliolo con scarsi risultati.
Uscii in strada e subii immediatamente gli effetti dello sbalzo di temperatura fra interno e esterno. Le mani mi cominciarono a sudare e quella destra diventò appiccicosa dallo zucchero rimasto dalla strage delle zollette.
Mi incamminai verso la Medina e intanto pregavo:
“Allah o chiunque tu sia, per favore aiutami! Mandalo via, ti prego! Non ce la faccio a sopportarlo!”
Quel giorno il suq sembrava più rumoroso e caotico del solito, i venditori più insistenti delle altre volte. Rapidamente attraversai la fila di bancarelle multicolore e giunsi alla moschea. Mi fermai là davanti e alzai gli occhi al cielo in cerca di qualcosa o qualcuno che mi proteggesse.
salām ‛ alaīkum
‛ alaīkum salām!- risposi contenta di sfoggiare il mio arabo.
min ’ayna anti? – mi chiese da dove provenissi.
min Italia.
’anā Ilias wa ’anti?
’anā Maria, tašarrafnā.
tašarrafnā.
Mi spiegò che era il muezzin della moschea e che era sempre felice di incontrare giovani stranieri, soprattutto se studiavano arabo.
Si esprimeva in arabo classico, in modo molto preciso e raffinato come non avevo mai sentito lì a Tunisi. Era giovane, magro, vestito di lino bianco e con un’espressione serena in volto. Mi chiese se mi andava di fare un giro per la Medina. Dapprima gli risposi di no, poi lui mi rassicurò dicendomi che voleva solo mostrarmi posti della Medina che certamente non avevo visto. Allora pensai che volesse spillarmi qualche soldo in cambio di un giro turistico per la città vecchia e non finii neanche di formulare il pensiero che egli disse:
– Non voglio soldi da te, non preoccuparti, vieni!-
“ Allora vuole qualcosa altro… ” –conclusi, attingendo dall’infinito bagaglio di stereotipi, che purtroppo circolavano nella mia testa.
– Non voglio neanche usarti per il mio piacere, né farti del male, davvero. Non aver paura!
Forse l’espressione del mio viso era particolarmente eloquente e lui di certo sapeva leggere bene le emozioni.
Decisi di fidarmi e così lo seguii per le viuzze della Medina. Mi condusse alla scuola coranica dove aveva studiato da bambino. Quando salmodiò una sura del Corano chiusi gli occhi e mi abbandonai al soave suono della sua voce.
Dopo un’ ora circa, ci fermammo per riposare in un caffè, evidentemente di proprietà di un suo amico.
– Hai mai assaggiato il tè alla menta?-mi chiese.
– Sì, in realtà non mi piace. È troppo dolce.
– Troppo dolce? E qual è il problema? Non ti piacciono le cose dolci?- mi guardò stupito.
– No, veramente no . Pensa che anche il caffè lo bevo amaro!
– Davvero? E come fai?
– Mi piace così.
– Allora altro che tè! Adesso ti faccio assaggiare una cosa speciale: Al- qahwa al- ‛arabiyya.
– Perché avete un modo particolare di fare il caffè?
– Aspetta e lo scoprirai- e poi rivolto al proprietario del locale- Rašīd portaci due qahwa.
Ci venne servito in delle piccole tazze senza manico decorate con fiori rossi e verdi. Non aveva un colore scuro, ma piuttosto presentava dei riflessi dorati che fecero sorgere in me qualche sospetto.
– È lo zafferano che gli dona quel colore- m’interruppe Ilias, quasi come se mi avesse letto nel pensiero.
Afferrai la mia tazzina con entrambe le mani e la portai al naso per odorarne la fragranza. Chiusi gli occhi e lasciai che il vapore emesso dalla bevanda calda mi inebriasse. Distinguevo benissimo l’aroma del cardamomo, che ero solita usare nelle mie pietanze.
Aprii gli occhi e guardai al mio bizzarro accompagnatore dapprima senza mostrare alcuna espressione, poi elargendogli un sorriso.
Sorseggiai lentamente quell’ atipico caffè e un misto di sapori ed odori allietarono il mio palato.
Poi ingoiai un sorso più grosso e allora le mie palpebre si chiusero nuovamente mentre una lacrima fredda, silenziosa, amara scorreva lenta sul mio viso.
– È buono?- mi chiese Ilias sussurrando.
Annuii con un cenno della testa e continuai a bere il mio qahwa.
Usciti dal caffè c’incamminammo per altre strette vie in cui potei ammirare la bellezza delle porte delle case, minuziosamente decorate. Ilias conosceva bene le persone del quartiere: le salutava e spiegava loro chi fossi, così loro salutavano anche me regalandomi quei sorrisi che appartengono solo agli arabi.
– Ecco- Ilias si fermò davanti ad una di quelle porte- questa è la mia casa.
La mente offuscata dal pregiudizio occidentale, da cui è difficile essere immuni, mi suggerì di stare attenta ad un possibile pericolo. Ilias fu in grado, anche quella volta, di tranquillizzarmi.
– Non posso farti entrare, perché sei da sola- mi spiegò con la voce più dolce che avessi sentito in vita mia – la prossima volta vieni con un amico, così ti mostro la mia casa.
– Grazie- gli risposi imbarazzata per aver dubitato della sua integrità morale.
Mi fece segno di aspettare e con una chiave che estrasse da un’ invisibile tasca dei pantaloni, dischiuse quel portone finemente decorato.
Al di là della porta c’era un piccolo giardino pieno di fiori e alberi.
– Questo è il mio giardino, puoi guardarlo da qui, ma non posso farti entrare- poi mi fece cenno di aspettare e varcò la soglia della porta.
Passò qualche minuto nel giardino, forse parlando con qualcuno e ne uscì stringendo qualcosa nella mano sinistra.
– Apri la mano- mi ordinò.
Gli porsi la mia mano sinistra ed egli vi fece scivolare sopra dei petali di gelsomino, poi me la richiuse in un pugno, come per custodire quel tesoro prezioso.
Lo ringraziai e gli chiesi di riaccompagnarmi perché stava facendo buio.
Solo quando giunsi al mio alloggio aprii la mano e feci cadere i petali sul pavimento. L’inconfondibile odore di gelsomino si profuse in tutta la stanza e a me sembrava di essere ancora in compagnia di quell’uomo misterioso.
La testa era diventata leggera, lo stomaco era ormai quieto, e anche quel peso che quasi m’impediva di respirare era ormai svanito.
Questa sensazione di benessere fu però solo momentanea. Il mattino dopo al mio risveglio lo ritrovai lì. Seguiva con lo sguardo ogni mio movimento e io quando incontravo i suoi occhi vitrei tremavo.
Nella speranza che fin lì non mi avrebbe seguito decisi di raggiungere il mare.
Un taxi mi portò fino alla stazione dei louage, mezzi di trasporto che solo a Tunisi si vedono, da cui partii per Al-Aouariyya .
Mi avevano detto che lì si poteva ammirare uno splendido paesaggio e soprattutto che era un luogo poco frequentato dai turisti.
Al-Aouariyya era molto diverso da Tunisi. Era un paese piccolo, con le strade non completamente asfaltate e le case bianche.
Chiesi informazioni stradali a una signora panciuta che trasportava un pesante fagotto sulla testa, ma purtroppo parlava solo dialetto. Dopo qualche metro giunse al mio olfatto un odore di saporitissimo pane caldo che seguii finché giunsi alla bottega di un panettiere. Mi chiese qualcosa in dialetto che chiaramente non compresi. Provai a comunicare in arabo, in inglese, francese e persino italiano, ma purtroppo non riuscivo a farmi capire. Allora ricorsi al linguaggio che noi mediterranei conosciamo bene, quello dei gesti. Comprai un po’ di pane caldo e lo gustai lungo il tragitto per il mare. Dovetti camminare molto prima di giungere ad un’altura al di là della quale si vedeva il mio tanto desiderato mare. Per giungere all’acqua bisognava attraversare degli scogli di un colore rosso ramato, che rendevano quel paesaggio davvero unico.
Finalmente trovai un masso su cui stare comodamente seduta, così distesi il mio telo viola e mi preparai a godere l’infuocato sole tunisino.
Chiusi gli occhi e lasciai che i raggi del sole penetrassero nella mia carne e vi diffondessero il tepore.

Continua….

Seconda parte qui: https://lamiasiria.wordpress.com/2016/04/09/il-caffe-arabo-parte-2/

CONCORSO DI NARRATIVA “La mia Siria”

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Vi incuriosisce la lingua araba? Vi piacerebbe approfondire aspetti della cultura dei paesi arabo- islamici? Che ne direste di imparare la lingua parlata in una della aree geografiche più affascinanti del Medio Oriente? Partecipando al concorso di narrativa “La mia Siria” avrete la possibilità di vincere 10 lezioni gratuite su una materia a scelta tra: Arabo standard, arabo palestinese, arabo siriano e storia e cultura dei paesi arabo-islamici. Le lezioni saranno tenute da Mirko Vamvakinos, giovane laureato in Storia del Vicino Oriente e da Rosanna Sirignano, dottoranda in Dialettologia araba.

Tutti gli elaborati saranno pubblicati, anche in forma anonima sul sito http://www.novakoine..it , mentra alcuni racconti scelti compariranno sul presente blog.

Il concorso è promosso dall’associazione di promozione sociale “Nova Koinè”, che si occupa per lo più di insegnamento della lingua italiana agli stranieri presenti sul territorio campano. Con la finalità della conoscenza reciproca e l’arricchimento attraverso lo studio di altre lingue e culture, da due anni l’associazione offre un corso di arabo, in partenership con l’Università “Misr” del Cairo. L’associazione inoltre si occupa anche dell’organizzazione di eventi culturali come il festival musicale “Voci e volti del Sud.”

Il concorso ha inoltre il supporto del Presidio del libro di Avellino, che dal 2010 cerca di rendersi parte attiva di un rilancio della promozione della lettura e dei luoghi ad essa deputati, sensibilizzando sia la cittadinanza nel complesso che le istituzioni. Attraverso diverse attività culturali, come gruppi di lettura, visione di documentari, presentazioni di libri, laboratori, il Presidio crea uno spazio di condivisione e di arricchimento umano e culturale nella città di Avellino.

Cosa aspettate? Inviate i vostri elaborati entro il 30 maggio a lamiasiria@libero.it

Scarica il bando:

CONCORSO LAMIASIRIA