
Le ore di luce lentamente facevano spazio a quelle di buio, l’aria era diventata più fresca e respirabile quel pomeriggio a Damasco. Acquistai un foulard di cotone nero da uno dei piccoli negozi del suq e mi diressi verso l’autobus. Per una strana coincidenza c’erano solo donne, tutte visibilmente musulmane. Persa nei pensieri che vagavano da un luogo all’altro della mente senza una precisa meta, mi ritrovai sola al capolinea dell’autobus, senza accorgermi di aver attraversato tutta la città. “Fine della corsa, scendere!” – e il conducente si voltò verso di me e sorridendo chiese: “Ajnabiye” “Straniera?”- “Sì, mi sono persa”. Chiamai Nura, che mi aspettava a casa sua per un tè da almeno un’ora e le spiegai la situazione. L’autobus successivo sarebbe partito dopo almeno mezz’ora e io mi trovavo in una zona lontana da casa sua. Le chiesi scusa, promettendole che le avrei fatto visita presto. A quel punto il conducente mi fece segno di passargli il telefono. Scambiò due chiacchiere con la mia amica, poi riattaccò e mi disse di stare tranquilla. Nonostante avesse terminato la sua giornata di lavoro, l’uomo tornò indietro e mi condusse in un punto della città dove mi stava aspettando Nura. Lo ringraziai immensamente e oggi gli sono ancora più grata per aver partecipato ad uno dei giorni più importanti della mia vita. Quel giorno a casa di Nura imparai i movimenti della preghiera islamica, imparai una pratica che la sera stessa divenne il mio linguaggio spirituale per i 9 anni successivi: l’Islam. Tornata a casa nel buio e il vuoto della mia camera siriana stesi a terra il tappeto leggero che mi aveva donato Nura, avvolsi la testa con il foulard nero comprato poche ore prima e cercai di ripetere la sequenza dei movimenti. Ne ricordavo bene solo uno: il sujud, la posizione in cui ci si piega con la fronte al pavimento e si diventa una piccola parte dell’immenso universo. Così, spontaneamente la shahada* attraversò la mia mente e uscì dalle mie labbra come un soffio. Il corpo rimase rigido e gli occhi faticarono a chiudersi per tutta la notte. Al mattino lavai via la pesantezza e il superfluo con acqua calda e mi preparai ad una nuova e faticosa ricerca. Giorno dopo giorno apprezzavo il silenzio e la pace delle prime ore dell’alba, lasciavo che i suoni del Corano vibrassero dentro di me per guarirmi fino al tramonto. I movimenti e le parole della preghiera diventavano sempre più naturali e fluidi e così cambiava il mio corpo, e con esso la mia mente e il mio spirito. Ai miei occhi di giovane viandante, le strade, le moschee, le chiese, i palazzi, le piazze, i bar di Damasco pregavano e glorificavano l’Universo, con gratitudine e gioia. Oggi celebro questo giorno, per ricordare che l’Islam è essenzialmente un modo di prendersi cura di se stessi e di connettersi con il divino. Il suo fulcro è la preghiera, in arabo salat, da compiere cinque volte al giorno, in armonia con la natura. Spesso noi musulmani ce ne dimentichiamo, la compiamo meccanicamente e frettolosamente, o ce ne allontaniamo. Oggi il ricordo del 12 novembre 2010 si trasforma in un augurio ai musulmani e alle musulmane di riscoprire il valore e la bellezza della tradizione spirituale che ci è stata trasmessa. Inoltre, al di là della fede e delle religione, auguro a tutti di trovare spazio ed energia per gustare ogni giorno della bellezza e del piacere di un momento di riconciliazione con noi stessi, la natura e il divino.
* Attestazione di fede in un unico Dio e nel suo Profeta Muhammad. È il primo pilastro dell’Islam.